domenica 22 luglio 2012

giovedì 12 luglio 2012

Il flop del preservativo


Una notizia che è passata in sordina: non ne ha parlato nessuno, tranne il quotidiano Avvenire che ha riportato direttamente i dati del ministero della Sanità inglese, anticipati a sua volta dal Daily Telegraph.
Li riportiamo anche noi, arrotondati per difetto. In Inghilterra nel 2010 hanno abortito 38.000 adolescenti e di queste ben 5.000 lo hanno fatto per la seconda volta e quasi 500 per la terza volta.
A onor del vero va detto che un leggero calo rispetto al 2009 c’è stato: quasi 2.000 aborti in meno. Ma è aumentato il numero degli aborti multipli.
Insomma, c’è poco da stare allegri. Da un lato c’è una vera e propria strage di innocenti, i bambini mai nati e uccisi alla media di poco più di 100 al giorno. Dall’altro c’è il dramma di ragazze segnate per tutta la vita da una scelta così devastante.

Ci dicono che in Italia si faccia poca educazione sessuale e che si parli poco di prevenzione. Ci dicono che si dovrebbe parlare maggiormente di preservativi & pillole ma che purtroppo viviamo in una società bigotta, con troppi tabù da sfatare. Ostacoli senza i quali diminuirebbero anche gli aborti tra le ragazze. Questo ci dicono.
Sarà che noi italiani siamo diversi dagli abitanti della Gran Bretagna, ma mi risulta davvero difficile credere che, se facessimo come loro, qui le cose funzionerebbero meglio. La società inglese è più libera e aperta della nostra, è meno “bigotta”, da 5 anni si promuove in lungo e in largo la contraccezione tra i teenagers. Perché allora più di 100 ragazze ogni giorno decidono di spegnere una nuova vita che è nata in loro? Evidentemente ci deve essere qualcosa che non funziona.

Che cosa?
Potrebbe essere la qualità dei contraccettivi. Scadenti, di pessima fattura, inefficaci. Ma è un’ipotesi che ci fa ridere. Quindi la scartiamo.
Potrebbe essere allora che nonostante la pubblicità martellante, i giovani teenagers inglesi non vogliano usare né pillole, né preservativi di sorta. Anche questa ipotesi sembra inverosimile, in un Paese dove la morale sessuale è molto più sbiadita e molle di quanto non sia in Italia e dove sembra che il governo inglese abbia addirittura recapitato gratuitamente a casa di migliaia di teenagers, durante le ultime vacanze natalizie, la pillola del giorno dopo.


E allora?
L’articolo di Avvenire riportava le parole di Rebecca Mallinson, della Prolife Alliance: “Queste ragazze hanno bisogno di valori, non di consigli pratici su come abortire. E’ facile dire a una minorenne che c’è una soluzione pratica e sbrigativa ai suoi problemi, ma una soluzione di questo tipo spesso è quella peggiore per il futuro”.
Qualche tempo fa un’amica ginecologa mi raccontava la sua esperienza di medico di guardia, soprattutto il sabato sera. Mi diceva delle ragazze che si presentavano da lei assieme al partner, terrorizzati entrambi, chiedendo la pillola perché si era rotto il preservativo. Mi raccontava di vedere in questi ragazzi sguardi attoniti, preoccupati, sorpresi, come a testimoniare un improvviso risveglio da un bel gioco. Un gioco che, nella realtà, proprio gioco non era, visto che tra le possibilità contemplava niente meno che quella di diventare padre e madre di una nuova creatura…
Ci chiedevamo, allora, che cosa non funzioni in Inghilterra, tra le teenagers super informate e super protette da una società che non mette loro alcun ostacolo al sesso-libero-ma-protetto. Una società che però non riesce ad impedire che, ogni giorno, più di 100 di esse uccidano il proprio figlio e si rovinino l’esistenza per sempre.

Può darsi allora che la partita vada giocata su un altro livello? Non è che forse bisognerebbe spiegare ai ragazzi che il sesso è più che un gioco? Può essere che prima ancora del come fare l’amore a loro interessi il perché ed il che cosa significhi?
Sono risposte difficili da dare e che avrebbero bisogno almeno che si provi quest’altra alternativa. Magari i risultati sarebbero gli stessi, ma non ci è dato saperlo in anticipo. L’unica certezza sembra essere che la prima strada non funziona, e quella l’abbiamo provata già; anzi c’è già chi l’ha provata per noi.
Perché allora insistere scioccamente?

Articolo pubblicato su Familiariamagazine.it

martedì 3 luglio 2012

Un'Italia di vecchi, un'Italia vecchia


“Siamo un paese vecchio, abbiamo idee e modalità vecchie. Dovremmo avere il coraggio di cambiare. Noi siamo venuti agli Europei con questo coraggio”.
Queste dichiarazioni di Cesare Prandelli, al termine degli Europei 2012 hanno fatto il giro dell’Italia. E forse del mondo.
E ci hanno ricordato una realtà che ci fa male, perché ci toglie la speranza nel futuro: viviamo in un Paese vecchio.
Cesare Prandelli ha fatto breccia, è entrato nei nostri cuori perché lui è simpatico ed ha anche una mentalità giovane, nonostante i suoi 55 anni. E’ uno che pensa da giovane perché ci ha fatto credere in un progetto. Perché sa sorridere, anche al termine di una finale persa per quattro a zero. Perché ci ha fatto vedere probabilmente il più bel calcio giocato dalla nazionale negli ultimi 10 anni. Un calcio giovane, che stride con un'Italia vecchia.

L'Italia è vecchia e non solo nel calcio. Ci voleva Prandelli per ricordarcelo?
Sono vecchi i politici. Compreso il settantatreenne ministro per lo sport, intervistato a fine partita a bordo campo. Con tutto il rispetto per l’onorevole Gnudi, ma almeno il ministro per lo sport, che per definizione è giovane, almeno lui, non potrebbe avere qualche anno in meno?
Sono vecchie le case. Per questo crollano quando la terra decide di muoversi.
Sono vecchi molti quadri dirigenti delle aziende. Che non crescono.
Sono vecchi i partiti, che non attraggono più.
Sono vecchi troppi docenti, perchè hanno perso la passione che dovrebbe accendere i cuori dei loro studenti.

Dovremmo avere il coraggio di cambiare, ci ha ricordato Prandelli. Lo ha ricordato agli italiani, a molti italiani vecchi, che avranno storto il naso alle sue parole, gridando o solo pensando “frasi da vecchi”: non é possibile, è difficile, non si cambierà mai, non vale la pena, quando ero giovane io...
Le frasi da vecchi spengono la speranza, e la speranza è la linfa della giovinezza.
Forse basterebbe che ciascuno di noi torni un po' più bambino e la smetta di fare troppi calcoli, di pronunciare "frasi da vecchi". Perché i bambini, grazie a Dio, ancora sanno sognare.
Non ci sono altre strade: o torniamo a sognare e a far sognare nella speranza di lasciare a chi ci seguirà un mondo più giusto, più bello, più vero, oppure rimarremo vecchi.
E un mondo di vecchi è destinato ad autoestinguersi.
E a non vincere neanche i prossimi mondiali...

Articolo pubblicato su Familiariamagazine.it


venerdì 29 giugno 2012

Se dici basta sei perduto


Qualche tempo fa una collega mi ha detto che non era sicura se quella mattina sarebbe andata a svolgere il suo consueto incarico settimanale nella scuola in cui fa colloqui di orientamento agli studenti dell’ultimo anno. “Non so se andrò – mi diceva – perché ieri si è suicidato un ragazzo e non so se oggi ci saranno i funerali”.
Le sue parole mi hanno colpito particolarmente. Non so spiegare il perché, dato che non era la prima volta che sentivo di un ragazzo che si toglieva la vita. Tra l’altro neanche lo conoscevo. Ho pensato subito alla grande fragilità emotiva di cui soffrono oggi molti adolescenti. Una malattia presente, purtroppo, anche in diversi adulti che non aiutano certo chi guarda loro con la speranza di poter costruire un futuro migliore. Sono molti i giovani e gli adulti che a un certo punto della loro vita dicono basta e che a volte lo fanno in maniera così devastante.

Mi sono tornate alla memoria, quasi spontaneamente, quelle parole di S. Agostino di Ippona: se dici basta sei perduto. Parole forti, decise, che non ammettono mezze misure, e che sembrano scritte per molti uomini di oggi, così propensi a tirare i remi in barca tutte le volte che la vita si fa dura. E invece sono state scritte ben diciassette secoli fa dall’illustre filosofo nonché santo, vescovo e dottore della Chiesa cattolica.
Se dici basta sei perduto. Dovrebbe essere il motto di ogni educatore, di ogni persona chiamata per vocazione a dare speranza. Chiamata a mostrare con la vita che vale la pena spendere la propria esistenza con il desiderio di lasciare a chi ci seguirà un mondo migliore di come lo abbiamo trovato noi.

Se mi chiedessero quale dovrebbe essere la prima qualità che un educatore oggi debba possedere non esiterei neanche un istante a indicare la speranza. Sì, perchè se gli manca la pazienza potrà sempre supplire con altre qualità. Se gli manca la capacitá di comunicare riuscirà comunque a trasmettere le proprie idee, anche se probabilmente con più fatica.
Se non possiede la capacità di comprensione – l'empatia – gli sarà più difficile capire chi si trova davanti ma alla fine il messaggio passerà egualmente.
Ma se a un educatore manca la speranza non ci sarà nessun’altra qualità che potrà sostituire questo grave vuoto. Sarebbe come guidare al buio e senza bussola. Con l'aggravante che un educatore non guida mai da solo ma porta con sé altre persone. Muovendosi al buio e senza nessun mezzo per orientarsi finirebbe per schiantarsi: e se anche riuscisse ad evitarlo, presto o tardi, la mancanza di speranza di arrivare alla meta spegnerebbe ogni speranza. Mi si perdoni il gioco di parole.
La speranza di giungere a destinazione è il motore che ci spinge ad andare avanti. Lo diceva già Seneca nel primo secolo: non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare.
E' impossibile mantenere costante il desiderio di andare avanti se non sappiamo qual è la nostra meta o se la consideriamo irraggiungibile. Prima o poi si getta la spugna.

Bisogna innanzitutto avere chiara la destinazione del nostro cammino, quindi. Camminare per camminare, prima o poi stanca. Anche se oggi tutto sembra dirci il contrario: un famoso film italiano di qualche anno fa faceva dire ad uno dei protagonisti: “l’importante non è quello che trovi alla fine di una corsa; l’importante è quello che provi mentre corri”. Già, peccato però che non si corre all’infinito e che prima o poi ci si ferma a chiedersi verso quale meta è indirizzata la nostra vita. E che cosa succede se ci si accorge che non c’è nessun obiettivo per cui valga la pena continuare a vivere? E soprattutto che cosa succede quando lo si scopre nel momento in cui recuperare gli anni perduti diventa difficile se non impossibile?
Ma non è sufficiente avere una meta per alimentare la speranza di continuare a correre verso di essa. Abbiamo anche bisogno di considerare che l'obiettivo sia effettivamente raggiungibile. Come posso sperare, per esempio, di laurearmi a Oxford se non conosco l'inglese? Dovrei prima imparare la lingua.

Mi rendo conto che sperare che le cose possano cambiare in meglio in un mondo caratterizzato da incertezze e dubbi, da paure e preoccupazioni, non è facile neanche per il più ottimista degli educatori. Ma la speranza non è necessariamente ottimismo. Non è la convinzione che qualcosa andrà bene ma la certezza che una cosa ha senso in ogni caso, leggevo tempo fa sul blog di uno scrittore italiano.
Per questo un educatore può e deve fondare la sua opera d’arte – e ogni uomo che diventa più uomo è un’opera d’arte – sulla speranza che ciò che fa ha un senso, perché si inserisce in un disegno che molto spesso è più grande di lui e di cui lui non è altro che un ingranaggio, piccolo ma essenziale.
Non solo ha il dovere di pensare che il mondo può essere migliore, ma anche che con qualsiasi persona gli venga affidata si possa fare qualcosa di grande, anche se i suoi sforzi si concludessero in un apparente fallimento. Il prof. Hundert, uno dei protagonisti de Il club degli imperatori, dice alla fine del film che “il valore di una vita non è determinato da un singolo fallimento, né da un solitario successo. Per quanto possa inciampare un insegnante è votato a sperare sempre che con lo studio si possa modificare il carattere di un ragazzo e, di conseguenza, il destino di un uomo”.


L’alternativa è la mancanza di credibilità. I ragazzi si accorgono subito se gli adulti sono i primi a non credere realmente a quello che professano; se loro per primi vivono quello che insegnano.
E se trovano attorno a sé adulti incapaci di accendersi per qualcosa di grande, rimangono irrimediabilmente spenti anch'essi. Quanti studenti si lamentano della demotivazione dei propri insegnanti?
Se il mondo oggi è in crisi di speranza forse è perché lo sono molti adulti. Hanno abdicato al loro ruolo di adulti, cioè di persone mature, cresciute. Adulto deriva dal latino adultum che è il passato di adolesco, che significa crescere; per questo un adulto ha il compito di mostrare a chi ancora è adolescente, cioè sta crescendo, la strada maestra verso la felicità, strada che è strettamente connessa alla ricerca del bene personale e del bene comune.
Invece di insistere che non c'è lavoro diamoci da fare per cambiare quello che sta nelle nostre possibilità. Invece di dire che la famiglia non funziona più e dura poco, che non esiste l'amore per sempre, che non ha senso sposarsi, mostriamo con la nostra vita che cosa significa amare chi ci sta accanto. Invece di screditare l’amicizia agli occhi dei ragazzi, perché l'amico prima o poi ti rifila sempre una fregatura, circondiamoci di amici a cui noi per primi diamo il meglio di noi stessi, con la convinzione che la vita ci restituirà molto di più.

Non ci nascondiamo dietro a un dito. Che lo si creda o no, noi siamo i modelli che i ragazzi guardano. Se loro sono spenti è perché vedono che noi siamo spenti. È come se con la loro vita ci dicessero: Se tu sei così, a che serve crescere? Che senso ha diventare come te? Perché impegnarsi per un futuro migliore, se i risultati sono questi?
Le cause dell'emergenza educativa non sono da addebitare ai giovani. Il problema è nostro, siamo noi adulti che dobbiamo cambiare. Mettiamocelo bene in testa.
E allora ripartiamo da noi. Ripartiamo dal presentare ai ragazzi modelli credibili, veri, autentici. Modelli attraenti. Modelli che diano loro la speranza che un mondo migliore è possibile.
È dall'amore alla vita che nasce l'amore alla vita, ha scritto una scrittrice italiana recentemente scomparsa.
Iniziamo noi ad amare la vita. Mostriamo con tutto il nostro essere che la vita è bella.
Ci meraviglieremo dei risultati sui nostri ragazzi.

Articolo pubblicato su Fogli di maggio 2012

venerdì 22 giugno 2012

Ana e Mia: quando l’alimentazione diventa un problema.


La mia vita è controllata da due personalità: Ana e Mia. Ana mi fa stare bene, mi fa sentire bella, mi fa sentire importante, mi fa sentire libera. Mia mi uccide dentro, mi fa sbagliare, mi rende brutta, mi rende cattiva, mi rende un fallimento. Due personalità contrastanti ma così legate l'una all'altra...Si alternano, si intrecciano, mi fanno diventare pazza. Devo uccidere mia prima che lei uccida me e la ucciderò grazie ad ana.
Inizia così il mio viaggio alla scoperta di un mondo a me sconosciuto, fatto di ragazzi ma soprattutto ragazze alle prese con due tra i disordini alimentari più diffusi e devastanti che esistono tra gli adolescenti: l’anoressia e la bulimia.
L’anoressia, che significa letteralmente “senza appetito”, spinge una persona a ridurre fino a quasi interrompere la propria alimentazione per la paura ossessiva di ingrassare. La persona anoressica non prende cibo e fa di tutto per dimagrire: spesso vomita per evitare di metabolizzare il cibo ingerito.
Molto simile all’anoressia è la bulimia, che significa letteralmente “fame da bue”: essa consiste in uno smodato desiderio di mangiare, seguito da forti sensi di colpa che portano la persona bulimica a voler eliminare il cibo ingerito attraverso il vomito autoindotto o l’uso esasperato di lassativi.
Due malattie di cui si parla meno di quanto si dovrebbe e attorno alle quali esiste un mondo nascosto e spesso clandestino costituito da centinaia di siti, blog e forum che coinvolgono migliaia di adolescenti e non solo.

Quello che si legge sul web fa rabbrividire e dà l’idea di quanta sofferenza ci sia dietro queste due malattie:
“Toglietevi dalla testa che vomitando risolvete la schifosissima abbuffata in cui siete cadute! L’abbuffata non è ammissibile! E’ solo in caso di emergenza, deve essere un gesto estremo, all’abbuffata non bisogna mai arrivarci! MAI! ANA è ordinata, pulita, perfetta! Ti mette il potere e il controllo nelle mani…”
E ancora:
“Vomito incessantemente tutto il giorno e più vomito più mi sento in colpa, più mi faccio schifo, più mangio e più vomito”.
Ancora più inquietante è quest’altra testimonianza:
“Ho 16 anni e l’anno scorso ero ana pesavo 34/35 kg x 1,66 di altezza. Poi ho deciso di uscirne e a giugno pesavo 49 kg e non ero né ana né mia. Ora, però purtroppo sono mia e voglio tornare ana!!!ciao un bacio a tutte…”

Si tratta di un mondo che, se da un lato mi è distante – sono un educatore, non uno psicologo o un medico -, dall’altro mi inquieta per le conseguenze devastanti che ha su molti adolescenti.
Si tratta di malattie che richiedono interventi specialistici, di ambito soprattutto psichiatrico oltre che alimentare. Tuttavia da educatore mi interrogo su quali siano le cause che portano molti ragazzi ma soprattutto ragazze ad avere con il proprio corpo un rapporto così conflittuale da rovinare la propria esistenza e, ovviamente, quella di chi sta loro accanto.
Mi rendo conto che probabilmente le cause sono tante e complesse ma non riesco a credere che, di fronte alla non accettazione patologica del proprio corpo, non ci sia anche una carenza educativa da parte di chi quella accettazione dovrebbe favorirla sin dalla nascita, ossia i genitori.
Lungi da me il desiderio di colpevolizzare chi spesso soffre con i figli e più dei figli per una situazione dolorosa e difficile da gestire.

Tuttavia non posso fare a meno di chiedermi: dove sono i genitori quando uno dei loro figli comincia a dimagrire in maniera così vistosa da scomparire quasi dietro ai vestiti? Come fanno a non accorgersene? Che modelli offrono ai loro figli perché questi possano identificarsi con essi? Quanto dialogo cercano di instaurare con loro sin da quando sono bambini?
Forse queste sembreranno domande semplici e scontate. Tuttavia è con azioni semplici e abituali che si formano i figli. L’educazione non è mai frutto di pratiche eccentriche o straordinarie. Straordinari sono quegli interventi che diventano necessari per sistemare qualcosa che a un certo punto ha smesso di funzionare correttamente. Non sarebbe meglio pensarci prima?

Articolo pubblicato sulla versione online di Familiaria

venerdì 15 giugno 2012

Un territorio comune


“Come è andata oggi a scuola?” Chi di noi non si è mai sentito fare questa domanda, tanto temuta quanto odiata, da parte dei propri genitori? Temuta, perché vorremmo fare tutto all’infuori che dover raccontare con parole sempre nuove quello che facciamo in maniera per noi ripetitiva e abituale ogni giorno a scuola. Odiata, perché è sempre la stessa domanda! E non è strano allora che si dia sempre la stessa risposta: Bene!
Il rapporto tra genitori e figli è una delle cose più difficili da gestire durante gli anni in cui si smette di essere bambini e ci si avvia verso l’età adulta. “L’adolescenza è quel periodo della vita in cui i genitori diventano insopportabili”, ho letto tempo fa in un libro sull’adolescenza. Sono le parole con cui un liceale risponde al suo prof che gli chiede di definire, a parole sue, questo periodo della vita.
Una definizione senz’altro poco scientifica, ma sicuramente divertente ed efficace. Una definizione che ben si collega alle parole con le quali ho iniziato questo articolo. Perché sentirsi porre sempre le stesse domande, in un periodo della vita in cui il rapporto con i genitori viene completamente ridisegnato, a volte è proprio insopportabile. Così come è difficile mettersi d’accordo sull’orario del rientro serale o sugli amici che “è bene o non è bene frequentare”, o sul modo di andare vestiti e via dicendo. Situazioni che spesso si concludono con porte sbattute, urla reciproche, musi lunghi e guerre fredde che durano per giorni e giorni.

Eppure, a sentire le due campane – da un lato i genitori, dall’altro i figli – verrebbe di dare ragione a entrambe. Ecco come un papà alle prese con un rapporto problematico con i suoi figli, commentava l’articolo in cui un docente faceva un elenco di comportamenti che ogni buon genitore dovrebbe avere: “Caro prof, ti posso garantire che essere genitori è difficilissimo, anche se tu fai tutto quello che annoti nel tuo post, spesso ti ritrovi contro i tuoi figli, capita di sentirti definire nei modi più sconfortanti... Sapessi quante volte ho pianto per il silenzio dei miei figli. Ho pianto per le loro risposte alle mie richieste. Sono stato quasi sempre molto disponibile, ho dedicato loro il mio tempo fuori dal lavoro, li ho sorretti, spalleggiati e coccolati, li ho amati, li coccolo e li amo ancora di più ora, sono la vita mia e di mia moglie, ma credimi essere genitori è la missione più difficile…”
E concludeva, rassegnato: “Prof, ti prego di' ai nostri figli quanto li amiamo e quanto cerchiamo molte volte in loro uno sguardo che ci indichi il momento di parlare e di esserci.”
Uno sfogo comprensibile, verrebbe da dire. Come non dare torto a questo papà che sembrerebbe mettercela tutta per continuare a comunicare con ragazzi che, dal canto loro, sembrano rispondere ignorando la sua sofferenza? E come non mettersi dalla parte di tanti papà e mamme che si trovano nella stessa situazione?
Già, ma come la mettiamo con gli altrettanto comprensibili e leciti desideri di tanti adolescenti che vogliono essere trattati da grandi, avere la giusta autonomia, pretendere il rispetto della propria riservatezza, essere tenuti maggiormente in considerazione?
Verrebbe di dare ragione a entrambi, scrivevo più sopra. Ma non sempre è possibile, anzi spesso è proprio dura riuscire a trovare una soluzione che accontenti entrambi, che tenga conto delle richieste degli uni e degli altri.
E allora che fare? Come costruire un ponte tra due mondi che sembrano, anzi, sono così diversi?

Un territorio comune
Proviamo ad individuare alcune possibili strategie per gettare un ponte da una riva all’altra. A cominciare, per esempio, dal trovare assieme un territorio comune su cui confrontarsi. I genitori non vogliono forse la felicità dei loro figli? Certamente sì, a loro modo però! E i figli, non vogliono per sè stessi la stessa cosa, cioè essere felici? In questo caso, però le prospettive sono assolutamente diverse da quelle dei genitori.
Si tratta allora di trovare dei punti in comune, per esempio provando a mettersi gli uni nei panni degli altri. E’ quello che gli esperti chiamano empatia, una parola che significa “provare la stessa passione, gli stessi sentimenti” e che a me piace tradurre in “guardare il mondo con gli occhi dell’altro”. Basterebbe questo per ridurre drasticamente molte delle incomprensioni che nascono tra genitori e figli, ma anche tra fratelli e sorelle, tra fidanzati, tra amici.
La comunicazione tra genitori e figli funziona infatti come qualsiasi altra forma di comunicazione. E quando c’è qualcosa che non va è perché in uno dei due – o in tutti e due – c’è qualche problema di fondo, oppure perché ci sono degli ostacoli tra le due persone che comunicano, oppure perché i due utilizzano linguaggi diversi. Quest’ultimo caso riguarda molto da vicino proprio la comunicazione tra genitori e figli che, per ovvi motivi, parlano e parleranno sempre due linguaggi completamente diversi. Se così non fosse, vorrebbe dire che i genitori hanno smesso di fare i genitori per indossare i panni degli amici – sarebbe meglio dire degli “amiconi” – dei figli. E questo comporterebbe altri problemi, ben più seri…
Ma torniamo all’empatia, a questa capacità di mettersi nei panni dell’altro per comprendere le ragioni del suo agire.
Pensiamo, per esempio, alla mamma che risponde alla figlia che vuole rientrare più tardi dell’orario previsto: “Un giorno capirai, quando sarai mamma e avrai i figli che vorranno rientrare alle due di notte!”. E perché non provare a capirlo adesso, invece? Perché aspettare anni per comprendere il motivo per cui i miei genitori sono così insopportabili su questo punto?
Qualche tempo fa, parlando con una ragazza del rapporto con i suoi genitori, questa mi diceva: “L’unica cosa di cui mi lamento è che mi chiedono ogni giorno ‘come è andata a scuola?’ perché credo che se mi assillano così è peggio e inutile: glielo dico comunque senza bisogno che me lo chiedono”.
Devo confessare che il dubbio che poi glielo dicesse comunque mi è rimasto… Eppure non è forse questo un esempio di come, mettendosi nei panni dei genitori e facendo il primo passo, si potrebbero evitare tante guerre familiari? Basterebbe, appunto, “dirglielo comunque senza bisogno che me lo chiedono”.
Certo, anche i genitori dovrebbero fare la stessa cosa ma molte volte, in un confronto difficile con un’altra persona, basta che uno dei due faccia il primo passo perché anche l’altro ammorbidisca la propria posizione.

Lasciamo che anche il tempo faccia la sua parte
Nel discorso tenuto agli universitari di Stanford nel 2005, Steve Jobs, ha parlato di come spesso, per trovare un senso pieno a quello che ci succede, dobbiamo attendere che passi molto tempo: “non potete sperare di unire i puntini guardando avanti, potete farlo solo guardandovi alle spalle: dovete quindi avere fiducia che, nel futuro, i puntini che ora vi paiono senza senso possano in qualche modo unirsi nel futuro”.
Jobs si riferiva allo studio, all’università, alla carriera professionale. Ma le sue parole possono certamente applicarsi anche alle incomprensioni che ci sono tra genitori e figli. Insomma, è lo stesso concetto dell’odioso “un giorno capirai”, solo che detto da Jobs suona un tantino più simpatico.
Già, perché poi c’è anche il problema di come si dicono le cose. Perché tra mille modi di dire le cose si deve per forza scegliere il peggiore? Basterebbe un po’ più di attenzione, di delicatezza, di empatia, per usare parole che sono più efficaci proprio perché evitano di ferire l’altra persona.
“Non trovi mai niente nella tua stanza! Questa casa non è un albergo! Non studi mai!”, gridano i genitori. Ma anche i figli non scherzano: “I genitori di Tizio sono migliori di voi! Siete vecchi! Non capite niente di noi!”
Il risultato è che ognuno rimane sulla propria posizione, anzi direi che questo genere di accuse finisce per alzare barriere sempre più invalicabili.
A volte – e anche questo vale per ogni forma di relazione tra due persone – è meglio lasciar raffreddare gli animi, attendere un po’ di tempo prima di affrontare il problema, pensare se le parole che sto per dire “a me darebbero un fastidio tremendo”; se è così, perché usarle verso l’altro?
Sono considerazioni forse ovvie, eppure nel nostro rapporto con gli altri commettiamo spesso l’errore di dimenticarle.
Basterebbe davvero un po’ più di attenzione per comunicare meglio. Tutto sommato è semplice, no?

Articolo pubblicato su Dimensioni Nuove di aprile 2012

martedì 12 giugno 2012

Pedagogia del dolore


È un pomeriggio primaverile e sto parlando a un folto gruppo di genitori, nella scuola di un paese siciliano. L’argomento è l’adolescenza, un tema sentito da tanti papà e soprattutto da tante mamme, quando toccano con mano la difficoltà di gestire un figlio adolescente.
A un certo punto il discorso cade sull’autonomia dei loro figli, sull’importanza di farli diventare capaci di prendere e portare avanti da soli le decisioni che riguardano la loro vita. Una meta difficilissima, in una società come la nostra, dove solo da pochi anni è stato coniato un termine – bamboccione – che la dice lunga sulla capacità dei figli di tagliare i ponti con le rispettive famiglie.
Una meta che sembra sempre più lontana dalla mente di molti genitori, preoccupati più di non far mancare niente ai propri figli che di aiutarli a saper vivere da soli.
Stiamo parlando di questo obiettivo, con i genitori presenti in sala, quando una mamma interviene e mi dice: «E adesso che mia figlia sta per terminare il liceo, lei si rende conto che dovrò starle dietro perché non dimentichi di fare l’iscrizione all’università? So già che dovrò essere io a prepararle i documenti e a informarmi su tutto quello che serve. Insomma, alla fine dovrò fare tutto io, perché la conosco bene e finirebbe per non riuscire a iscriversi in tempo».

Rimango pensieroso mentre la signora continua a parlare. Alla fine provo a dire la mia opinione, spalleggiato da alcuni genitori presenti, perplessi come me, ma non c’è verso di farle cambiare idea.
Continuo a chiederle: perché non rischiare di farle fare uno sbaglio che potrebbe aiutarla a diventare finalmente «grande»?

E’ una domanda che continuo a farmi tutte le volte che tocco con mano la fragilità degli adolescenti. E’ un tema di cui si parla sempre più spesso, quando emerge la difficoltà di tanti ragazzi a reggere il peso di una delusione amorosa o di un insuccesso professionale, per esempio; quando emerge in qualche modo la difficoltà a gestire la complessità della vita. Qualche tempo fa, a Napoli una ragazza si è suicidata dopo aver mentito ai genitori facendo credere loro di essersi laureata, perché non ha avuto il coraggio di dire che non riusciva a laurearsi. E ancora, lo scorso anno a Palermo un giovane dottorando si è lanciato dal settimo piano dell’edificio universitario dove lavorava, perché angosciato dalla mancanza di prospettive professionali.

Ora, è indubbio che si tratta di drammi che richiedono rispetto nei confronti delle vittime e del loro dolore. Ma saremmo incoscienti se non riflettessimo a fondo sui motivi che portano un giovane a fare scelte così drastiche e che denotano l’enorme difficoltà a reggere il peso della sofferenza.
Oggi molti giovani sono incapaci di soffrire. E non di rado la colpa è dei loro genitori, che fanno di tutto per risparmiare ai figli, sin da piccoli, ogni difficoltà e ogni forma seppur lieve di sofferenza; a volte la ritengono un’esperienza addirittura traumatica. Ma per quanto essi si sforzino, non potranno mai impedire completamente che i figli sperimentino la realtà del dolore e della sofferenza.
La sofferenza fa parte della vita come l’errore fa parte dell’apprendimento. Non esiste apprendimento che non faccia esperienza degli errori; anzi, proprio questi spesso aiutano a imparare meglio. Allo stesso modo, non esiste vita nella quale non si faccia esperienza del dolore. Un’esperienza salutare, perché il dolore spesso insegna ad apprezzare le cose che contano nella vita.
Per questo è preoccupante che molti genitori vogliano eliminarlo dalla vita dei loro figli. È preoccupante perché così facendo li priveranno del mezzo più importante che i figli hanno per apprezzare e amare la vita.
Che cos’è il dolore, infatti, se non la reazione a un male fisico o morale? Esso non ci rimanda, per contrasto, all’idea del bene? Così come le ombre in un quadro fanno risaltare le luci, così come l’amaro ci fa gustare meglio il dolce, il dolore e la sofferenza ci permettono di apprezzare le cose belle della vita; sembra scontato eppure non lo è.

Eppure oggi tanta gente giovane è letteralmente terrorizzata dall’idea di soffrire. Molte nuove mamme hanno orrore del parto naturale, per esempio. I ragazzi sono spaventati dalla solitudine, cercano continuamente la compagnia del gruppo, di qualcosa o di qualcuno che non li faccia mai sentire soli. Ma la solitudine è necessaria per ascoltarsi, conoscersi, amarsi; tre tappe senza le quali non è possibile amare un’altra persona.
Ancora, molti ragazzi sono terrorizzati dalla noia, che è diventata il nemico principale da combattere. Nella loro vita non ci può essere spazio per la noia: ogni desiderio dev’essere immediatamente soddisfatto. E, in un circolo vizioso che si autoalimenta, il piacere continuamente soddisfatto finisce per atrofizzare proprio la capacità stessa di desiderare.

Il dolore ci aiuta a comprendere il valore delle cose. La fatica che accompagna una conquista dà infatti un grande valore all’obiettivo raggiunto; ma se le cose si ottengono senza soffrire, senza sforzo, che valore avranno?
Il dolore ci aiuta a capire che nella vita non tutto ci è dovuto; e ci predispone più facilmente a ringraziare per quello che ci viene donato dalla vita stessa, ogni giorno. Eppure in tanti oggi cercano di fuggire il dolore. Sarà anche per questo che molte persone non capiscono il senso del ringraziare?
Il dolore è la pietra di paragone dell’amore, diceva qualcuno. Sarà per questo che oggi molti non sono più capaci di amare?

Certo, è brutto veder soffrire una persona cara, ancora di più se si tratta dei nostri figli. Ma a volte, permettere loro questa esperienza è molto salutare; addirittura può diventare necessario, in alcuni casi. Non abbiamo alternativa, se vogliamo renderli felici.
Non impediamo che sbaglino. Non impediamo che soffrano.
Non sia mai che, per non averla mai provata, un giorno vengano a chiederci il conto perché li abbiamo protetti costantemente dalla sofferenza. Sarebbe il danno più grande che potremmo aver arrecato loro. Anche se lo avessimo fatto a fin di bene.

Articolo pubblicato sul numero di Aprile 2012 di Fogli

martedì 5 giugno 2012

Educare il cuore: non c’è altra strada


“Ai genitori fanno quasi paura, i figli; i genitori fanno tutto quello che gli chiedono loro”
Parole di Sara, 13 anni, studentessa di una scuola media di Modena. Le riporta Maurizio Tucci, giornalista, nel suo commento all’ultima indagine della Società italiana di Pediatria sulle “Abitudini e stili di vita degli adolescenti”.
Un’indagine fatta su un campione di 1300 ragazzi e ragazze tra i 12 e i 14 anni.

Ho sempre pensato che le parole di Sara potrebbero essere quelle di tanti suoi coetanei. Soprattutto quando guardo i miei, di coetanei. Genitori spesso timorosi di dire di no ai propri figli, per non perdere la loro amicizia e la loro fiducia. Genitori che, davanti al compito di educare i figli, sembra che abbiano alzato bandiera bianca. Con la conseguenza che tanti ragazzi si ritrovano senza quei punti di riferimento necessari per imparare a diventare grandi.
Educare i figli, oggi, è un compito arduo, non lo metto in dubbio. Qualche giorno fa parlavo con un amico di quanto sia difficile, per esempio, aiutare un adolescente a riconoscere la propria tonalità emotiva, a dare un nome alle emozioni che prova, a vivere una sessualità inserita in una più ampia cornice affettiva e relazionale che le dia senso pieno.
Un compito che diventa ancora più arduo se chi dovrebbe averlo per “missione” decide di tirare i remi in barca.
L’indagine che ho citato all’inizio è tanto chiara quanto impietosa: a proposito di sessualità, per esempio, i ragazzi non parlano quasi mai con i genitori, non li ritengono capaci di comprenderli e si rivolgono sempre più spesso ai forum su internet o ai coetanei per risolvere i propri dubbi. I genitori rimangono estranei alla sfera sessuale e affettiva dei figli e spesso, rassegnati davanti ai “tempi che cambiano”, non riescono ad andare oltre alla raccomandazione di portare con sé la pillola o il preservativo, perché “non si sa mai…”

Sembrerà un’affermazione banale, ma se oggi si parla tanto di emergenza educativa è perché, da molto, troppo tempo, la grande assente è proprio l’educazione.
E la soluzione, anche questo sembrerà banale, sta nel tornare a educare. A cominciare proprio dall’affettività, che forse è la dimensione che più di altre ha bisogno di essere ridefinita nel giusto quadro antropologico. L’uomo contemporaneo soffre di uno squilibrio esistenziale perché ha continuato ad alimentare la testa ma ha smesso di educare il cuore, lasciandolo in balìa di se stesso.
Il cuore è la sede degli affetti. E’ stato detto che dal cuore nascono i buoni propositi ma anche le peggiori intenzioni che un uomo possa formulare. Dal cuore dipende la qualità delle nostre relazioni. Da esso passa la nostra felicità. E oggi più che mai il cuore è la porta attraverso la quale possiamo arrivare alla testa dei giovani. Per questo se vogliamo affrontare la sfida educativa dobbiamo iniziare dalla formazione del cuore.
Non c'è altra strada, se vogliamo dare ai ragazzi gli strumenti con i quali possano rispondere alle domande di senso che si fanno proprio durante l’adolescenza. Chi sono io? Che ci faccio su questa terra? Che senso ha la mia esistenza? Perché vivo? Per chi vivo? Che cosa è la felicità e che cosa devo fare per essere veramente felice?
Dobbiamo tornare a educare il cuore perché oggi le risposte a queste domande mancano o, quando ci sono, sono spesso fonte di insoddisfazione e di malessere per i ragazzi stessi. Un malessere che si esprime soprattutto nella fragilità affettiva, nella banalizzazione della sessualità che viene vissuta come un gioco, nel preoccupante aumento dei comportamenti a rischio.
Riporto solo alcuni dati. Il 17% del campione intervistato dalla Società italiana di Pediatria ritiene che i 14 anni siano l’età giusta per avere rapporti sessuali completi. Tra gli adolescenti cresce a macchia d’olio il fenomeno del sexting, l’inserimento in rete di proprie immagini a sfondo sessuale. Qualche settimana fa ha fatto il giro del web la notizia di una bambina di 10 anni che si è fotografata nuda ed ha postato le proprie immagini su Facebook. Sempre più ragazzi sono affetti dall’ansia da prestazione sessuale: si sentono inadeguati a riprodurre con il proprio partner quello che vedono raffigurato dalle immagini che trovano con estrema facilità su internet.
Sono convinto che alla base di tanto malessere ci sia un cuore che non funziona bene. Molti dei problemi relazionali tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra amici o tra fidanzati, non nascono proprio dall’incapacità di gestire i moti dell’affettività? O non derivano forse dal dare troppo spazio alle emozioni a scapito della ragione, o dalla difficoltà di orientare correttamente le proprie passioni?
Il nostro agire si esprime sempre attraverso emozioni, sentimenti, passioni, sensazioni, motivazioni, manifestazioni tutte dell’affettività; quest’ultima è una sorta di anello di congiunzione fra la dimensione fisica dell’uomo e quella spirituale-razionale. Come possiamo trascurare allora questa “terza dimensione” così importante e fondamentale per la nostra felicità?
E soprattutto come possiamo farlo quando ci troviamo ad educare una generazione di ragazzi sempre più storditi dalla ricerca ossessiva di emozioni forti?

Sia chiaro: emozioni e sentimenti vanno sviluppati e valorizzati, non repressi. L’obiettivo dell’educazione è sempre quello di formare persone libere ed equilibrate. Persone capaci di usare la testa ma anche il cuore. Il compito educativo è un lavoro eminentemente positivo. Bisogna lavorare quindi in tal senso. Come?
Innanzitutto valorizzando proprio le istanze positive che l’odierna società affettiva ci presenta. Parliamo ai ragazzi della bellezza dei sentimenti e delle emozioni quando questi sono guidati dalla ragione. E facciamolo presentando loro esempi e modelli di persone che incarnano questo stile di vita: la storia, il cinema, l’attualità ci verranno in aiuto, senza dimenticare comunque che i modelli che i ragazzi guardano per primi siamo proprio noi.
Aiutiamo i ragazzi a conoscersi, ad ascoltarsi, a guardarsi dentro, educandoli sin da bambini alla lettura, alla contemplazione della bellezza, al silenzio, al rispetto per l’opinione degli altri. Fermiamoci a rispondere alle domande che ci fanno anche quando pensiamo che non abbiamo il tempo per farlo.
Aiutiamoli ad accettarsi per come sono fatti, amandoli incondizionatamente e non per i risultati che ottengono a scuola o in palestra o al circolo del tennis. Evitiamo di fare paragoni con i fratelli o con i loro compagni di classe. Ascoltiamoli, osserviamoli, comprendiamoli, invece di fare domande. A volte basterà semplicemente trasmettere l’idea che li capiamo, dicendo “Che forte! Ci sarai rimasto male. Sarai stato contento”.
Rispettiamone la crescita e non diamo loro l’impressione che li vogliamo più grandi o più piccoli di quello che sono.
Aiutiamoli a conquistarsi gli obiettivi e non diamo loro tutto subito. Che apprezzino lo sforzo per raggiungere una meta. Che sperimentino la noia, perché una vita in cui ogni desiderio è immediatamente soddisfatto finisce per spegnere in loro la capacità di sognare.
Incoraggiamoli a sviluppare le passioni, che sono intense come le emozioni e durature come i sentimenti. Coltivare passioni sane è la ricetta migliore per curare l’apatia che oggi affligge molti di essi. Non a caso c’è chi ha definito il nostro tempo l’epoca delle passioni tristi.
E per finire, ripartiamo da un’idea centrale: la famiglia è il primo luogo in cui affrontare con i figli il tema dell’affettività prima e della sessualità poi. Non si può delegare questo compito alla scuola o alla parrocchia o all’associazione culturale.
Ai genitori viene richiesta una preparazione ed un impegno maggiori, non c’è dubbio. Dovranno appassionarsi se vorranno essere all’altezza del loro compito. Passione benedetta, perché così facendo avranno già ottenuto una vittoria: quella dell’esempio, che agli occhi dei figli vale sempre più di mille discorsi.

Articolo pubblicato sul numero di Marzo 2012 di Fogli

giovedì 3 maggio 2012

La salvezza viene dai giovani


Sembra una delle solite frasi fatte. Ma mai come adesso possiamo dire che la salvezza viene dai giovani, dalle nuove generazioni. Quale salvezza, vi starete chiedendo? Quella dei milioni di embrioni che ogni anno vengono concepiti, crescono e che non arrivano a vedere la luce, e non per cause naturali. Ma pure la salvezza di chi, arrivato alla fine della sua vita, vorrà portarla a termine in maniera naturale, anche quando la malattia potrà spingerlo a pensare che la sua vita non è più degna di essere vissuta. E ancora, penso alla salvezza di centinaia di bambini down, ai quali viene privato il diritto di nascere da chi ha deciso di non far loro condurre una vita tutt’altro che dignitosa…

La battaglia per la difesa della vita, oggi, si trova a un punto di svolta. Dopo decenni di ideologia post-sessantottina, nei quali è stata smantellata buona parte del sistema di valori su cui si è sviluppata la società occidentale, oggi qualcosa sta cambiando.

La medicina ha fatto passi da gigante ed è molto difficile riuscire a sostenere la tesi che un feto non sia un essere umano. Che l’aborto sia un omicidio oggi è più evidente di quanto non lo fosse trent’anni fa. Come pure che l’embrione è già una vita umana a tutti gli effetti. E allora, giustamente, ci si interroga sulle contraddizioni di una società che condanna la pena di morte ma che paradossalmente ammette che a milioni di bambini non ancora nati venga impedito per sempre di vedere la luce.

Non vorrei sembrare eccessivamente ottimista ma mi sembra che in Italia da alcuni anni stia crescendo la sensibilità verso questo tema; e soprattutto cresca la sensibilità di tanti giovani, che poco alla volta sostituiranno gli attuali "adulti" che governano le sorti della nostra società e che tanta responsabilità hanno avuto nell’approvazione della legge 194/78.

Diverse sono state, recentemente, le iniziative a favore della vita promosse proprio dai giovani. Lo scorso anno una organizzazione internazionale giovanile è riuscita a presentare all’ONU una Declaración de la Juventud (Dichiarazione della Gioventù) con più di 100.000 firme per promuovere politiche a favore della vita. Sul web sono presenti gruppi e movimenti giovanili apertamente schierati a favore della vita. Tra questi segnalo, ad esempio, www.giovaniprolife.org, il portale dei giovani del Movimento per la Vita; oppure http://www.saltovitale.info, il magazine online dei giovani prolife. Il prossimo 13 maggio si terrà a Roma la seconda edizione della Marcia nazionale per la vita, alla quale prenderanno parte anche numerose associazioni giovanili.

Tuttavia questo non basta. I giovani hanno dalla loro l’entusiasmo e la freschezza tipici dell’età, ma la loro azione non può prescindere dagli adulti. E questo per diversi motivi.
Innanzitutto perché gli adulti rappresentano il futuro e se questo futuro non è raffigurato positivamente da modelli concreti, diventa più difficile per i giovani sperare in un reale cambiamento del mondo. Oppure il cambiamento auspicato rischia di diventare il desiderio di una società perfetta fondata sull’utopia. E sappiamo come è finita tutte le volte in cui l’uomo ha cercato di creare il paradiso sulla terra…

E poi i giovani hanno bisogno di formazione, perché possano liberarsi dall’approccio superficiale tanto diffuso nel mondo d’oggi e che banalizza tutto, a partire dalla vita stessa. I giovani hanno dalla loro il desiderio tipico della giovinezza di chiedersi il perché delle cose, di volere comprendere le ragioni di quello che succede nel mondo, di quello che li riguarda da vicino. Ma non possiamo dimenticare che sono figli di un mondo che li spinge ad una superficialità che, se non affrontata adeguatamente, non dà spazio alla ragione e alla verità.

Per questo hanno bisogno di adulti competenti e appassionati, che sappiano trasmettere loro non solo le conoscenze sulla vita ma anche il desiderio di andare a fondo, la speranza concreta di cambiare il mondo, la volontà di non fermarsi ai luoghi comuni, soprattutto quando questi riguardano la vita, che è il bene più grande che possediamo.

Sull’aborto, sull’eutanasia, sugli embrioni, sulla procreazione artificiale, i giovani hanno il diritto di capire come stanno le cose. Hanno il diritto di conoscere la verità, spesso nascosta per motivi ideologici o di convenienza. Aiutarli a formarsi è un dovere degli adulti. E’ un dovere nostro e non possiamo tirarci indietro.

Articolo pubblicato sulla versione online di Familiaria

mercoledì 11 aprile 2012

Difendere un sogno


“Nella società odierna vale ancora la pena avere dei sogni?”
La domanda è di quelle che ti spiazzano. A farla, una studentessa di un liceo classico siciliano, dove mi trovavo qualche settimana fa per un incontro sul primo romanzo di Alessandro D’Avenia, vero e proprio best-seller del 2011.
Per rispondere alla domanda ho utilizzato proprio alcune parole riportate dallo scrittore siciliano nel suo libro: “un mondo senza sogni è come un giardino senza fiori” (dal libro “Bianca come il latte, rossa come il sangue”).
Già, come si fa a vivere senza sogni? Sarebbe impossibile, la vita sarebbe grigia, monotona, spenta. Non solo vale la pena sognare – dicevo a quella ragazza –, ma non possiamo farne a meno se vogliamo davvero essere felici; l’uomo è per sua natura un sognatore, solo gli animali non sognano. E per finire, citavo ancora D’Avenia, che nel suo romanzo fa dire al nonno del protagonista: “Non smettere di sognare, rinunceresti ad essere te stesso”.
Eppure, nonostante la mia risposta data con apparente facilità a quella liceale, le sue parole mi hanno fatto molto pensare. Perché una ragazza di 16 anni, che dovrebbe fare della “voglia di sognare” uno dei punti di forza su cui costruire il proprio futuro, si chiede se oggi vale ancora la pena farlo? Che cosa le fa venire il dubbio che forse è meglio non illudersi di immaginare un mondo migliore per poi non ritrovarsi con la delusione di un obiettivo impossibile da raggiungere?

In effetti, oggi sognare un futuro positivo richiede una buona dose di ottimismo e di speranza, ingredienti che sono sempre più difficili da trovare in giro. La ricetta per la felicità che ci viene offerta dal mondo attuale sembra fatta di individualismo, di soddisfazione immediata dei desideri, di conquiste professionali, di relazioni “usa e getta”. Il pronome personale più usato negli spot pubblicitari è “io”; quello possessivo è, invece, “mio”…
Tutto sembra dirci che non vale la pena studiare perché tanto poi non si trova lavoro. Non vale la pena amare perché tanto poi l’amore finisce. Non conviene avere amici perché gli amici prima o poi ti abbandonano quando non gli servi più. Sposarsi? Neanche a parlarne, visto che dopo un po’ ci si separa…
Ma è davvero così? E’ diventato così difficile essere felici? Oppure ci lasciamo condizionare così tanto dai messaggi negativi che il mondo ci manda in maniera tanto insistente quanto esagerata?
Forse sono vere entrambe le cose. Di sicuro molti di coloro che dovrebbero rappresentare dei modelli attraenti per i giovani non lo sono più e questo provoca una forte delusione in tanti ragazzi che vorrebbero guardare loro come punti di riferimento da imitare.
E così molti finiscono per spegnere le luci che illuminano il proprio avvenire e per ripiegare su modelli che presentano un’immagine di felicità tanto fragile quanto irraggiungibile.
“Voglio un mondo all’altezza dei sogni che ho”, era scritto sulla parete di un edificio della mia città. Già, ma se chi ci deve aiutare a sognare non è capace di alzare la direzione del nostro sguardo, diventa tutto molto difficile.
Non pensiamo però di dare solo la colpa agli adulti assenti, sarebbe troppo facile! Il nostro futuro è come un mosaico che è fatto di tasselli già presenti, di altri che si staccano perché vecchi e di altri ancora che mettiamo noi. E allora sì che si può fare tanto, lavorando molto sui tasselli nuovi, quelli che possono ridare luce all’immagine quando questa diventa sbiadita. E’ la forza della giovinezza, che ha una capacità di sognare così grande da riuscire a resistere anche alle delusioni più forti. E’ la forza di un’età che è fatta apposta per conoscere le cose grandi che ognuno è venuto a fare in questo mondo.
Ricordate il discorso che Steve Jobs ha tenuto nel 2005 agli studenti dell’Università di Stanford? Probabilmente ricorderete le parole più celebri: “Stay hungry, stay foolish”. Siate affamati, perché la sazietà spegne i sogni, sembrava dire Jobs. E poi siate folli, perché per sognare, bisogna osare, rischiare, perdere la paura di fare qualcosa di grande.

Dove trovo i miei sogni?
E allora, proviamo a trovare il luogo dove incontrare i nostri sogni. Potrebbe sembrare un luogo lontano, fantastico, irraggiungibile e invece è più vicino di quanto ci aspettiamo.
Sì, perché i nostri sogni sono nascosti nelle cose che incontriamo realmente, ogni giorno. I nostri sogni li troviamo nella realtà, nelle persone che la vita ci mette accanto, nei talenti che ognuno di noi ha, a cominciare dal tempo, che è il primo dono che ci è stato dato.
A volte invece li cerchiamo al di fuori della realtà, quando immaginiamo situazioni che per diversi motivi non potremo mai vivere. Quanti di voi che state leggendo saranno protagonisti di Amici o del prossimo campionato di serie A? E quanti invece potranno essere protagonisti della propria esistenza perché decidono di essere se stessi e di giocarsi la vita al meglio delle possibilità che vengono loro offerte?
Cercare i sogni nella realtà significa, per esempio, trovarli in un libro che ci apre orizzonti nuovi e insospettati; oppure in un film che ci coinvolge profondamente per la storia vera, autentica, reale che ci racconta. Ancora, troviamo i nostri sogni nello scrivere una lettera ad un amico invece di mandargli una mail; o nel fargli una telefonata al posto di un freddo e distaccato SMS.
Troviamo i nostri sogni nel silenzio, che così tanto ci aiuta a guardare dentro noi stessi e a contemplare la grandezza della nostra vita. Troviamo i nostri sogni nelle tante piccole cose che ci accadono lungo la giornata e che spesso ci danno indicazioni sulla direzione verso la quale orientare il nostro cammino.

Per non perdere la rotta.
Riportavo all’inizio il paragone fatto da D’Avenia tra una vita senza sogni ed un giardino senza fiori. Subito dopo, però, lo scrittore aggiunge che “una vita di sogni impossibili è come un giardino di fiori finti”. E i fiori finti, se a prima vista possono sembrare bellissimi, finiscono presto per deludere, perché non hanno vita.
I sogni non possono rimanere tali, devono trasformarsi in progetti. Solo così danno quella soddisfazione che promettono; se rimangono sogni deludono.
Ma per trasformarsi in progetti, molte volte i sogni hanno bisogno di ostacoli, di difficoltà che ne mettano alla prova la consistenza. Avete mai provato ad appendere un quadro ad un chiodo che è stato piantato alla parete senza incontrare nessuna resistenza?
Probabilmente è facile capire che un sogno ha bisogno di ostacoli per trasformarsi in un progetto reale. Ma poi la vita ci mette di fronte alle difficoltà ed ecco che improvvisamente si perde di vista questa idea. Provate a rimanere convinti del valore delle difficoltà quando il prof vi mette un quattro, o quando la ragazza vi ha lasciato, o quando vostro padre non è quello che vorreste… Difficile, vero?
Anche per questo è importante avere accanto qualcuno che ci aiuti a trasformare i sogni in realtà, che sappia indicare la strada da percorrere. Soprattutto qualcuno che sappia dimostrare con la propria vita che i sogni si possono raggiungere, e che è possibile farlo anche se spesso si tratterà di camminare in salita o contro corrente.
Qualcuno che faccia venire la voglia di andare avanti anche quando molti ci diranno “lascia perdere” o quando ci faremo prendere dalla paura di rischiare, dalla tentazione di lasciare il passo a qualcun altro.
Qualche tempo fa leggevo su un forum le parole di una ragazza: “Ognuno di noi ha un sogno, ma tanti hanno paura di credere ai propri sogni e li rinchiudono in un cassetto, dimenticando dove hanno lasciato la chiave”.
Sognare è facile, credere nei propri sogni lo è di meno. Ma la cosa più difficile è forse quella di lasciare i cassetti vuoti. O almeno, di non riempirli con i nostri desideri di cose grandi!

Articolo pubblicato su Dimensioni Nuove di marzo 2012

martedì 20 marzo 2012

Vite parallele


Sapete quante cose succedono su internet mentre leggete questo articolo? Dipende da quanto tempo ci mettete per leggerlo, la risposta sembra banale. D’accordo, ma sareste in grado di quantificare esattamente quello che succede mentre scorrete le righe fino alla fine dell’articolo?
Supponiamo che riusciate a leggerlo interamente in un minuto. Ebbene, in questo lasso di tempo, in tutto il mondo saranno state inviate 168 milioni di mail, inseriti 600 nuovi video su Youtube, i server di Google avranno risposto a quasi 700 mila interrogazioni e tali saranno anche gli aggiornamenti di stato su Facebook, con 510 mila commenti postati sulle bacheche del social network più famoso del pianeta. E ancora, saranno nati 60 nuovi blog e saranno stati scritti 1500 nuovi post.

Insomma, se proprio ce ne fosse il bisogno, questi numeri – riportati qualche mese fa su alcuni quotidiani e blog - dimostrano che la rete è viva e vegeta e che rappresenta un luogo frequentato da milioni di persone.
Lo spazio virtuale costituito dal web – e con esso il tempo impiegato per viverlo – è pieno e ricco di vitalità. I numeri parlano chiaro e non possiamo ignorarli: esiste una sorta di vita parallela che prende sempre più forma col passare del tempo. Una vita che si sovrappone e si affianca a quella reale di ognuno di noi, una vita fatta di relazioni, contatti, rapporti con altre persone che non vediamo, né sentiamo, né – a volte – conosciamo.

Di vite parallele ha parlato, anzi ha scritto, duemila anni fa Plutarco, che non è il cane di Topolino, come disse Homer Simpson in una puntata del cartoon più seguito e amato dagli italiani.
Lo scrittore e filosofo greco mise a confronto molte biografie di personaggi famosi, riunite a coppie, per mostrare vizi e virtù comuni ad entrambi i personaggi descritti.
Vite parallele, vizi e virtù, luci ed ombre. Non possiamo ignorare questa dicotomia, se vogliamo cogliere il meglio di ciascuna delle due vite in questione.

Allo stesso modo, le vite parallele vissute da milioni di persone, ogni giorno, sul web, non sono fatte di sole ombre. Dovremmo ricordarcelo più spesso, noi educatori, quando parliamo del rapporto tra i ragazzi ed il web. A parte il fatto che sarebbe interessante capire quanti di coloro che fanno tutte quelle cose in un minuto della propria giornata siano adulti e non ragazzi; ma non ci è dato saperlo. Immaginiamoci allora che siano soprattutto giovani. Giovani che, come mi capita spesso di sentire dalla bocca dei loro educatori (genitori ma soprattutto docenti), stanno continuamente a perdere tempo su internet.
Dovremmo ricordarci più spesso, dicevo, che quello dei media digitali è un mondo che va conosciuto, valorizzato, compreso. Solo così potremo conoscere, valorizzare e comprendere meglio il mondo degli adolescenti. E quindi dare loro quel supporto educativo che essi, giustamente, reclamano.

Due esempi su tutti.
Un paio di anni fa mi trovavo con un quindicenne, il quale mi disse che quel giorno avrebbe dovuto fare attenzione al numero di sms da inviare agli amici, perché aveva quasi finito i 4000 messaggi disponibili per quel mese. Lo ascoltai e annuii soprapensiero; alcune ore dopo mi ritrovai a riflettere sulle sue parole e feci un rapido calcolo: se ha quasi finito i messaggi disponibili in un mese, vuol dire che ogni giorno, in media, ne ha inviati 130; ipotizzando che non abbia mai usato tutti i caratteri disponibili per scrivere un sms, ma soltanto la metà, il conto è presto fatto: ha scritto ben 10.400 caratteri al giorno, cioè più di 310.000 caratteri in un mese.
Detto in altri termini, un ragazzo che usa tutti gli sms di cui dispone ogni mese, è come se scrivesse, per dialogare con altre persone, un documento pari a 50 volte l’articolo che state leggendo. E questo soltanto con gli sms! Ora, vogliamo smetterla di pensare e dire che i ragazzi oggi non sanno più comunicare?
Comunicano, eccome! Il punto è che lo fanno in maniera diversa da come siamo stati abituati a farlo noi. E’ una comunicazione più povera, se vogliamo, ma è pur sempre una comunicazione che ci allontanerà da loro nella misura in cui ci limitiamo solo a criticarla.

Un altro esempio.
L’estate scorsa sono stato invitato a moderare un laboratorio nell’ambito di una giornata di formazione per educatori di una diocesi siciliana. Il tema della giornata di lavoro era Giovani e sfida educativa. Il titolo del laboratorio che avrei dovuto moderare era Giovani e social network.
Mi aspettavo di coordinare il lavoro di diverse persone alle prese con un mondo – quello dei social network – sconosciuto per molti educatori. Prima dell’avvio dei laboratori, il coordinatore dei lavori aveva sottolineato ai partecipanti come quella dei social network fosse probabilmente la frontiera più difficile ma allo stesso tempo più avvincente per un educatore che cerca di capire il mondo dei giovani.
Eppure all’avvio del laboratorio credevo di aver sbagliato stanza, dato che eravamo soltanto in tre. Poco dopo sono arrivati altri due partecipanti, dirottati dagli altri gruppi, decisamente più numerosi.
Non per voler sminuire i temi degli altri tre laboratori (oratori, liturgia, progetto culturale) ma mi sono chiesto – e continuo a chiedermelo adesso – come sia possibile riavvicinare le nuove generazioni alla bellezza del rapporto con Dio se non ci si rende conto che il problema è soprattutto di comunicazione? E come si può pensare di comunicare con loro se i linguaggi parlati dai ragazzi diventano sempre più distanti e diversi da quelli degli adulti? Quanto meno bisognerebbe fare lo sforzo di comprendere come funziona il loro codice…
Il laboratorio si è però concluso in bellezza: almeno ho avuto il piacere di veder arrivare, nel bel mezzo dei lavori, addirittura l’anziano vescovo, il quale si è seduto assieme a noi e ha contribuito notevolmente allo sviluppo delle riflessioni, mostrando un grande interesse per l’argomento.

Come dire, non è l’età quella che impedisce di vedere le ombre e soprattutto le luci delle vite parallele.

Articolo pubblicato sul numero di febbraio di Fogli

mercoledì 7 marzo 2012

Il giusto equilibrio


Reduce da un incontro su come educare attraverso i film, tenuto da un esperto sceneggiatore che è anche educatore. Sono convinto che faccia sempre bene confrontarsi, aggiornarsi, pensare. Soprattutto quando da te e dalla tua ricchezza interiore dipende la maturazione di altre persone: è una delle regole-chiave che ogni educatore dovrebbe osservare se vuole lasciare traccia.
Ed in effetti, anche questa volta mi porto a casa un po’ di cibo per la mente: alcune considerazioni fatte dal relatore, che mi piace condividere con voi. Nulla di nuovo, ci tengo a precisarlo. Ma la bravura di un educatore sta proprio nel presentare le idee di sempre in maniera nuova e attraente. Un po’ come una mamma che si diverte – proprio così, si diverte – a preparare per figli e marito i cibi di sempre, ma conditi in maniera ogni volta diversa e magari con un pizzico di fantasia. Ci guadagna lei, che si diverte, appunto; e ci guadagnano anche marito e figli, che mangiano con più gusto.

Ma torniamo alla conferenza. Tra le tante cose che ho ascoltato, una mi è piaciuta particolarmente: l’elenco degli ingredienti che formano un educatore equilibrato. Ne venivano citati quattro: dottrina, affetto, spettacolo, progetto.
Sarà compito di ogni educatore (padre, madre, prof) amalgamarli nella maniera più adatta ad ognuna delle persone che si troverà davanti.
Vediamoli brevemente, uno per uno. Sono solo cenni, spero di tornare su ciascuno di essi nei prossimi articoli.

La dottrina. Chi vuole educare non può improvvisare. Oggi per educare bisogna studiare, aggiornarsi, lo scrivevo all’inizio. E lo ripeto sempre, tutte le volte che faccio un incontro ai genitori. Generare non è solo la conseguenza di un atto fisico; generare significa mettere al mondo un essere a me simile, un essere del mio stesso genere. Un essere che pensa, ama, soffre, gioisce, spera; che è capace di libertà. O meglio, che diventa nel tempo capace di libertà. Per questo per educare ci vuole un’idea a cui ispirarsi, bisogna conoscere l’uomo e le sue potenzialità, è necessario capire come affrontare la sfida educativa che ogni bambino o adolescente ci lancia.
Poi c’è l’affetto, l’amore. Se manca, ogni tentativo di educare è destinato inevitabilmente al fallimento. Educare non è un processo di produzione aziendale, in cui si parte da una materia prima e si arriva al prodotto finito attraverso l’osservanza di regole e istruzioni. L’uomo è libero, ho scritto sopra, e diventa pienamente libero nella misura in cui usa la sua libertà per amare se stesso, gli altri, la vita intera. Un amore che non può nascere e svilupparsi se non lo vede incarnato in chi lo ha generato. Scriveva Natalia Ginzburg: “Questa è forse l’unica reale possibilità che abbiamo di riuscir loro [ai figli] di qualche aiuto nella ricerca di una vocazione, avere una vocazione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con passione: perché l’amore alla vita genera amore alla vita”.
Al terzo posto, tra gli ingredienti dell’educatore equilibrato, veniva elencato lo spettacolo. Educare è anche giocare, divertirsi assieme, sognare, rischiare. La tristezza non fa parte dell’educazione. Sembra un’affermazione scontata ma quanti adulti dimostrano esattamente il contrario.
Ultimo ma non in ordine di importanza, il progetto. “Non esiste vento a favore per il marinaio che non conosce il porto di arrivo”, scriveva Seneca. Senza un progetto non c’è futuro. Oggi i ragazzi fanno una grande fatica a costruire progetti per la loro vita. Sognano, perché è impossibile vivere senza sogni. Ma non progettano, perché gli adulti hanno loro spento i riflettori che puntano sul futuro. La mancanza di progetti nei ragazzi va di pari passo con la mancanza di adulti significativi nella loro vita. Chi me lo fa fare a impegnarmi, se da grande sarò così?, sembrano dire tanti ragazzi parlando di chi dovrebbe guidarli.

Dottrina, affetto, spettacolo, progetto: gli ingredienti per fare un capolavoro ci sono tutti. Aggiungiamoci il sale della speranza e saremo pronti ad affrontare qualsiasi sfida con la certezza di uscirne sempre vincitori.


Articolo pubblicato sul blog della rivista Familiaria.


venerdì 24 febbraio 2012

L'amicizia. Dove si nasconde questo tesoro?


"Sei su Facebook? Allora ti chiedo l’amicizia stasera, appena mi connetto!".
Chi di noi non ha mai pronunciato o ascoltato queste parole almeno una volta da quando utilizza Facebook?
“Ti ho chiesto l’amicizia… Mi hai accettato l’amicizia… Abbiamo 20 amici in comune…”. Mai come oggi, probabilmente, si è fatto un uso così disinvolto della parola amicizia e mai come oggi sembra che essa abbia perso quell'aura quasi di sacralità che da sempre la caratterizza.
Colpa di Facebook? Probabilmente no, anche se il social network più famoso del pianeta ci ha messo senz'altro del suo. Ma non al punto da far dimenticare ai suoi utilizzatori che l’amicizia, quella vera, è un’altra cosa. “Ho 1.500 amici su Facebook. Ma quanti di essi sono veri amici?”, potrebbe chiedersi a ragione ognuno dei milioni di utenti della community creata da Zuckerberg.
Già, i veri amici. Quelli che sono così "speciali" che si contano sulle dita di una o due mani. Quelli a cui posso dire tutto e da cui posso aspettarmi di tutto. Quelli di cui mi posso fidare ciecamente e a cui concedo l'accesso al tesoro più grande che possiedo, la mia intimità. Quelli che essi stessi sono un grande e inestimabile tesoro.
Eh sì, l’amicizia è una delle esperienze più belle che una persona possa fare. Per capire quanto sia vera questa affermazione, provate a immaginare un mondo senza amici. Se anche riusciste a raffigurarvelo, sareste in grado di vedervi felici in un mondo del genere?
E' molto probabile che la risposta a questa domanda sia un "no" deciso, a riprova che è impossibile vivere senza amici, e questo per un semplice motivo: l’amicizia risponde ad uno dei desideri più profondi del cuore umano, cioè quello di amare e di sentirsi amato.
Sull'amicizia si è scritto tanto nel corso del tempo.
Lewis la considera uno dei quattro amori, assieme all’affetto, all’eros e alla carità. E Goethe paragona gli amici a ciò che riempie il giardino della nostra vita: “Il nostro mondo appare più vuoto se lo immaginiamo solo pieno di montagne, fiumi e città. Però sappiamo che da qualche parte c’è qualcuno che è in sintonia con noi, qualcuno con il quale continuiamo a vivere, sia pure in silenzio. Questo, e solo questo, fa sì che la terra sia un giardino abitabile”.
Sono parole bellissime, che richiamano alla mente quelle di Calvino, il quale nelle Città invisibili paragona la nostra vita all’inferno dei viventi che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme e che molte volte è fonte di sofferenza. “Due modi ci sono per non soffrirne – afferma lo scrittore italiano –. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Come non pensare all’amicizia come una di queste risorse preziose da riconoscere, far durare e a cui dare spazio?

Un percorso a tappe
Avere amici non è facile e ancora più difficile è esserlo; lo sappiamo per esperienza. Tempo fa una ragazza mi scriveva: “come è difficile farsi amare, soprattutto da un amico. Farsi voler bene senza se e senza ma, non avendo paura di andare in profondità. Perché ci sono aspetti del nostro essere che noi stessi odiamo e mai e poi mai vorremmo che saltassero fuori soprattutto davanti a una persona che stiamo facendo nostra amica.”
Mi sembra che queste parole mettano bene in luce il primo vero obiettivo da raggiungere per divenire capaci di amicizia vera: essere amici di noi stessi.
Quante amicizie finiscono perché ad un certo punto l’altro non soddisfa più i nostri desideri? Ma, c’è da chiedersi, che amicizia è quella che ci tiene uniti ad un’altra persona solo perché questa ci fa stare bene? In un rapporto del genere quanto c’è di amicizia vera e quanto invece di bisogno di colmare i nostri vuoti affettivi? Perché se non ci amiamo e non ci accettiamo con tutti i nostri limiti e lati oscuri, difficilmente riusciremo a vivere amicizie autentiche e soprattutto libere.
Il momento più nobile e autentico di un'amicizia si raggiunge infatti quando davanti all'amico posso mostrare le mie ferite e i miei limiti senza timore di essere giudicato. Fino ad allora non c'è vera amicizia, ma solo il bisogno di riconoscimento, cioè di qualcuno che mi dica "tu sei bravo". E un’amicizia così è destinata, prima o poi, a naufragare.
Il primo passo è quindi quello di imparare ad essere amici di se stessi.
Ma non basta. Bisogna andare oltre e comprendere il senso di un'amicizia intesa come dono di sè, perchè solo così essa potrà durare a lungo, anche per sempre.
Probabilmente starete pensando che l'amicizia di chi si dona completamente, di chi non cerca il proprio tornaconto ed è capace di dire all'amico "sono contento che tu esista così come sei", sia difficile da ottenere, se non addirittura impossibile da trovare.
In effetti è indubbio che di amici così ce ne sono pochi e quando abbiamo la fortuna di avere un amico autentico si rafforza in noi la convinzione di avere trovato un vero e proprio tesoro. Ma è anche vero che non è poi così difficile diventare noi stessi tesoro per gli altri.
Come fare allora a trasformare le nostre amicizie in relazioni solide e profonde, belle e indistruttibili?

L'amicizia non cresce da sola
Il segreto sta nell'impegno a farla crescere andando oltre la semplice spontaneità: l'amicizia come dono richiede un costante esercizio di generosità, lealtà, stima, comprensione, prudenza, fortezza, umiltà, fiducia. In altri termini richiede che crescano in noi quelle che Aristotele chiama virtù umane.
D'altra parte, se ci pensiamo bene, è anche logico che sia così. Abbiamo detto che l'amicizia autentica, come ogni forma di amore, esige il dono di sè all'altro. Ma come possiamo pensare di donare noi stessi senza fare i conti con la nostra tendenza innata a voler ricevere le attenzioni degli altri piuttosto che essere noi a darne? Sarebbe un'impresa difficilissima. Per questo ci vengono in aiuto le virtù, come gli esercizi atletici senza i quali nessuno sportivo sarebbe capace di migliorarsi costantemente. Basti pensare che questo dono si esprime, per esempio:

  • nell’offerta della propria interiorità, sapendo dare qualcosa di sé all’amico; e questo richiede umiltà, senza la quale diventa molto difficile permettere ad un'altra persona di entrare nella nostra intimità;
  • nell’accoglienza dell’altro così come egli è, il che presuppone una notevole capacità di comprensione;
  • nella benevolenza rivolta a cercare innanzitutto il bene dell’amico; e sappiamo per esperienza quanto sia difficile pensare al bene altrui prima di ogni tornaconto personale. Una volta mi diceva una persona che l'amore vero non esiste, perchè in ogni relazione che intessiamo con gli altri c'è sempre la ricerca di una forma di soddisfazione egoistica che vogliamo prima di ogni altra cosa. Non è forse questa una visione troppo cinica che dimentica quanto il cuore umano sia capace di dilatarsi, se opportunamente allenato dall'esercizio delle virtù?
  • nel non voltare le spalle all'amico quando scopro i suoi limiti, i suoi difetti, quando mi accorgo che nella nostra amicizia è comparso un ostacolo che prima non c'era. E questo richiede la fedeltà che mantiene l’amicizia nel tempo; e richiede anche la fortezza che mi fa dire di no alla tentazione, oggi così diffusa, di mandare tutto all'aria quando non sento più nulla per l'altro;
  • nella solidarietà quando l’amico si trova in difficoltà. Si dice sempre che i veri amici si vedono al momento del bisogno. E' vero, ma non è altrettanto vero che un amico viene fuori al momento della tempesta solo se ha vissuto bene la sua amicizia anche in tempi di bonaccia? Impresa ardua da ottenere senza una buona dose di generosità.


Fidarsi è bene, e tra amici è ancora meglio!
Abbiamo visto alcuni dei diversi modi in cui si puó manifestare il dono dell'amicizia. Ma ce n'è ancora uno che, probabilmente, è quello che più di ogni altro caratterizza un autentico rapporto di amicizia: la fiducia.
Qualche tempo fa ho raccolto alcune definizioni dell'amicizia durante un incontro fatto con un gruppo di ragazzi proprio su questo tema.
Amicizia è condividere sogni, futuro, passioni, lotte, confidenze. Accettarsi reciprocamente e migliorarsi a vicenda.
E ancora: L'amicizia è un rapporto sincero e fedele tra due persone. Due persone che si vogliono bene e sono pronte ad aiutarsi sempre. L'amicizia rende felici.
Potrei continuare con altre definizioni simili, ma le esigenze di spazio me lo impediscono. Eppure se lo facessi, vi accorgereste che sempre, nelle definizioni che i ragazzi hanno dato, compare la fiducia. Un elemento fondamentale, imprescindibile, senza il quale non può esserci amicizia. Di un amico mi devo fidare. Sempre. Se non mi fido fino in fondo allora non siamo veri amici.
Certo, c'è sempre il rischio che l'amico tradisca questa fiducia. Ma non posso rimanere immobile per questo motivo, così come sarebbe assurdo smettere di respirare per paura dell'aria inquinata.
E poi il cuore umano è fatto per amare, e se non ama qualcuno finisce per rinchiudersi in se stesso.
Insomma, l'amicizia è una esperienza vitale per la nostra felicità. Certo, non è facile difenderla e mantenerla intatta nel corso degli anni. E' un tesoro e, come tutti i tesori, va custodito dagli attacchi dei ladri che vogliono rubarlo. Può darsi che sia un tesoro difficile da individuare e proteggere, perchè l'amicizia non è visibile come può esserlo uno scrigno che contiene diamanti: è un tesoro che, come ha scritto uno dei partecipanti all'incontro di cui vi parlavo prima, si trova nell'invisibile legame che congiunge le anime degli amici.
O, se vogliamo utilizzare le parole di uno dei libri più belli che la storia ci ha lasciato, l'essenziale è invisibile agli occhi; e l'amicizia fa parte di ciò che nella vita di una persona è essenziale.
Per questo è impossibile farne a meno. Peggio: sarebbe inumano.

Articolo pubblicato sul numero di febbraio 2012 di Dimensioni Nuove



lunedì 13 febbraio 2012

Un senso


“Volevo dirle che mi ha fatto molto riflettere sulle diverse tematiche in questione e soprattutto su quella relativa alla comunicazione genitori-figli. Secondo lei come si ci può comportare con un genitore la cui visione della vita è pessimistica e di conseguenza influenza i propri figli?”
Sono appena rientrato a casa e, scaricando la posta elettronica, leggo queste parole di una ragazza che ha partecipato ad un incontro tenuto nella sua scuola il giorno prima. Un incontro in cui ho parlato di sogni e speranze, di ottimismo e fiducia nel futuro.

Fa sempre piacere vedere che le tue parole sono state utili a qualcuno. Fa ancora più piacere se si tratta di persone giovani. Noi educatori abbiamo bisogno anche di queste piccole gratificazioni, perché, per quanto ripetiamo a noi stessi che quello che conta è la gratuità con cui ci dedichiamo ai ragazzi, a volte i nostri limiti ci fanno toccare con mano la difficoltà a mantenere quell’ottimismo che ci sforziamo di trasmettere con le parole.
Una volta un amico al quale manifestavo la sensazione di aver parlato invano ad un gruppo di studenti particolarmente “vivaci”, mi rispose: “Lasciamo sempre qualcosa anche ai più distratti e stanchi tra i ragazzi che ci ascoltano. Comunque, fosse anche per uno solo, ne vale sempre la pena.”

Ma torniamo alle parole della ragazza con cui ho aperto questo articolo. Già, è facile parlare di ottimismo, sembrava dire, ma come fai quando esso manca proprio a casa tua, tra le mura domestiche, tra i tuoi cari, tra coloro che dovrebbero mostrarti la speranza nel futuro?
“Cerca di avere accanto persone ottimiste”, è stata la prima cosa che mi sono sentito di consigliarle. Per rispondere così ho dovuto far tesoro della mia esperienza personale, perché la vita ha messo al mio fianco persone che mi hanno insegnato a gioire del dono che ogni giorno mi viene fatto. Mia madre, innanzitutto; poi tanti amici, alcuni in particolare. Forse anche a me è mancato l’apporto di mio padre, che mi ha trasmesso altre qualità ma non l’ottimismo… e questo mi ha fatto sentire particolarmente vicino alla ragazza che mi ha fatto quella domanda.
Essere ottimisti oggi non è facile. Non è facile trovare ottimisti attorno a noi; anzi, spesso siamo attorniati da messaggi e modelli che vanno nella direzione opposta e che alimentano in noi la paura e la disillusione nei confronti del futuro.
Una paura che ha il potere di spegnere i sogni, come il vento freddo che soffia d’inverno e che ci spinge a rimanere chiusi in casa.
Ma dalla casa bisogna uscire, non siamo fatti per vivere tra le pareti di un appartamento. E non siamo fatti neanche per piangerci addosso. Quando lo facciamo ci stiamo male.

L’uomo contemporaneo è malato di pessimismo, di paura, di tristezza perché ha perso la speranza in qualcosa o in qualcuno che dia un senso ultimo alla sua esistenza. L’uomo contemporaneo è malato di solitudine perché non sa più dare una risposta piena alla domanda che, prima o poi, bussa alla sua porta: Io per chi vivo?
L’ottimismo è il risultato di una pienezza di senso: qualsiasi cosa succeda per me ha un senso, per questo la vita non mi fa paura.
Ripartiamo dal dare un senso alla nostra vita. E per farlo, facciamo leva sul naturale desiderio di condividerla con altri, che a loro volta si appoggeranno su di noi, alimentando una reciproca rigenerazione di speranza. La felicità è reale solo se condivisa, ci ricordava un bellissimo film di qualche anno fa.
Forse un rimedio per interrompere il circolo vizioso della tristezza e del buio nel quale tanti sono caduti è provare a fare girare il vortice al contrario e trasformarlo in un circolo virtuoso di speranza e di luce. Come?
Magari partendo dalla constatazione che "c’è del buono in questo mondo", per usare le parole che, nel Signore degli Anelli, Tolkien mette in bocca a Sam in un momento di sconforto del suo migliore amico, Frodo.
Proprio partendo dal "buono" che troviamo attorno a noi, nelle persone che amiamo, nei nostri amici e conoscenti, nei nostri colleghi, in noi stessi, troveremo la forza per trasformare lo spazio e il tempo della nostra esistenza in risorse preziose per noi e per chi ci sta accanto.
E i pessimisti che ci circondano? Forse smetteranno di essere tali proprio grazie a noi. Anche se si trattasse di chi, come i genitori, dovrebbe illuminare il nostro cammino verso il futuro.

Articolo pubblicato sul blog della rivista Familiaria

martedì 7 febbraio 2012

Libero di scrivere le mie "storie"?


“Voglio sentirmi libero da questa onda, libero dalla convinzione che la terra è tonda, libero libero davvero non per fare il duro, libero libero dalla paura del futuro, libero perché ognuno è libero di andare, libero da una storia che è finita male, e da uomo libero ricominciare, perché la libertà è sacra come il pane, è sacra come il pane”.
Così cantava tre anni fa Fabrizio Moro, in una canzone che, oltre ad essere considerata un inno alla libertà da molti ragazzi, è stata anche usata come colonna sonora di una delle serie per adolescenti di maggiore successo degli ultimi anni, I liceali.

E’ facile parlare di libertà, la canzone di Fabrizio Moro non è l’unica a farlo; lo è di meno, però, dire che cosa sia effettivamente la libertà.
Scriveva Hegel: “Di nessuna idea si sa così universalmente, che è indeterminata, polisensa, adatta e perciò realmente soggetta ai maggiori equivoci, come dell’idea della libertà; e nessuna corre per le bocche con così scarsa coscienza”.
Già, non è facile definire la libertà in un mondo che ha fatto dell’abbattimento di limiti e barriere una conquista che non sempre però ci lascia convinti. “Voglio sentirmi libero da questa onda”, canta Fabrizio Moro. Molti vedono la libertà come la possibilità di sganciarsi da ogni tipo di vincolo. Liberi da qualcosa o qualcuno: solo così si realizzerebbe pienamente la nostra libertà. Eppure ci rimane il dubbio che qualcosa, in questa definizione, non funzioni. Fino a che punto possiamo parlare, infatti, di libertà di aborto o di divorzio, di libertà di ricerca scientifica in campi delicatissimi come l’embrione e le cellule staminali, di libertà di legittimare nuove forme di famiglia o di esercitare preferenze sessuali diverse e senza regole? Fino a che punto è lecito parlare di libertà di eutanasia o, come fanno alcuni in Olanda, di libertà di pedofilia?
In un mondo che vuole annullare ogni limite che impedisca il nostro agire libero, ci chiediamo allora: deve esistere un limite anche per la libertà? E ancora, a che cosa serve la libertà? E’ un fine oppure un mezzo, uno strumento?

Leggete un po’ queste parole trovate tempo fa sul web: “Essere liberi, vuol dire avere la consapevolezza di se stessi per poter sfidare il mondo, senza paura delle conseguenze e del finale che comporteranno le tue azioni....perché se sei libero, lo sei dal tempo, dal passato, dal presente ma soprattutto dagli altri....” Parole affascinanti, forse; ma ci fanno rimanere col dubbio che qualcosa non quadri: è mai possibile che il dono più bello che abbiamo ci serva proprio per non aver alcun vincolo con niente e con nessuno? E’ possibile che la nostra libertà sia assoluta, che si realizzi nello sganciarsi “da” qualsiasi legame, e che non sia invece “per” qualcosa di grande?
Di libertà ha parlato nel 2007 il bellissimo film Into the wild, che racconta l’impresa di un ragazzo che fugge dal suo mondo, da solo, per raggiungere la libertà assoluta in Alaska. Senza dire come va a finire – anche se molti di voi lo avranno visto - , come non ricordare le parole con cui Chris, il protagonista, compie la più grande scoperta del suo lungo viaggio alla ricerca della felicità, e cioè che questa “è reale solo se è condivisa”?
Libertà da o libertà per qualcosa? E’ questa la domanda su cui l’uomo si interroga da sempre. Molti filosofi antichi hanno sostenuto che la libertà vada usata per fare il bene: “non è vivere che è importante ma vivere nel giusto”, scriveva Socrate. Ed Epitteto aggiungeva: “libero non è chi comanda, ma chi obbedisce alle leggi”.
Addirittura le leggi ci permetterebbero allora di esprimere al meglio la nostra libertà? Quanto risulta difficile comprendere questa posizione, abituati come siamo a vivere in un mondo che fa della libertà assoluta la sua legge di vita.

Forse un esempio ci può aiutare a capire meglio. Immaginiamoci seduti davanti alla tastiera di un pianoforte: siamo più liberi se pigiamo i tasti a caso o se suoniamo l’Aria sulla quarta corda di Bach? In quale dei due casi sappiamo utilizzare al meglio il pianoforte traendone qualcosa di veramente bello? Certo, imparare a suonare il pianoforte costa; ci sono ore ed ore di lezione, scale dopo scale, solfeggi, esercizi: bisogna seguire una regola! Non mi fraintendete: è evidente che schiacciare a caso i tasti di un pianoforte non mi rende meno libero; però è vero che si tratta di una libertà rudimentale, grezza, limitata.
Seguire le regole, allora, non sembra limitare la mia libertà. Anzi, come sostiene Epitteto, la realizzerebbe pienamente.
Non è facile, però; è molto più comodo lasciarsi andare. E spesso la conquista della libertà autentica è ostacolata da fattori esterni ed interni a noi: la moda, la pubblicità, la manipolazione dell’informazione ad opera dei media, per esempio. Ma ci sono anche alcuni ostacoli dentro di noi che mi piace riassumere in tre espressioni: “non so fare” (non so studiare, non so giudicare, non mi so esprimere, non so prendere decisioni, non so ascoltare), “non ho” (non ho iniziativa, non ho buon gusto, non ho amici), “non sono” (non sono ordinato, non sono costante, non sono comprensivo, non sono esigente…). Quanti di noi nascondono la propria comodità dietro queste affermazioni che, in definitiva, mostrano tutta la nostra incapacità a impegnarci per essere padroni di noi stessi?
Non è facile, scrivevo. Eppure è molto bello e la prova è data da quanto siamo felici quando riusciamo a superare le nostre limitazioni, attraverso un percorso che si snoda in tre tappe successive: conoscere i propri limiti, accettarli e con essi accettare se stessi, e infine sforzarsi per superarli.
Ricordate le parole del prof. Keating, ne L’attimo fuggente?
“Dovete combattere per trovare la vostra voce. Più tardi cominciate a farlo, più grosso è il rischio di non trovarla affatto!”

Giunti a questo punto è arrivato il momento di farci una domanda che, ne sono sicuro, almeno una volta nella vita ci è passata per la mente: libertà e amore possono andare d’accordo? In altre parole, è possibile amare una persona e rimanere liberi davvero?
Da quello che abbiamo scritto prima sembrerebbe proprio di sì. Ma cerchiamo di capirlo meglio.
E per farlo, partiamo da alcune parole scritte da una ragazza su un forum: “A volte per amore si fanno rinunce per rendere felice l' altro, a volte possono essere di un certo peso a volte possono essere banali, ma sempre privazioni del nostro essere. Quindi mi chiedo: il prezzo da pagare per amare è rinunciare alla nostra libertà di esistere e vivere?”
Ecco, probabilmente la chiave per capire il nesso tra amore e libertà sta in una parola che è il nucleo centrale dell’amore, cioè il sacrificio.
Ci sono tre modi di stare con una persona e questo vale sia per l’amicizia, sia per l’amore tra uomo e donna. Il primo è basato sull’utile, sul bisogno: “sto con te per ottenere qualcosa” (sono tuo amico finché mi passi i compiti, finché mi inviti a casa tua con la piscina, finché mi dai un passaggio con la moto). Ci vuole poco a rendersi conto che in questo caso non possiamo parlare di amore e che tale rapporto è destinato a finire presto.
Il secondo modo di stare con una persona è basato sul piacere, nel senso più ampio del termine: “sto con te perché mi fai essere felice”. Anche in questo caso, si tratta di un rapporto destinato a estinguersi quando l’altro non mi fa più stare bene. Quante volte sentiamo dire: “non stiamo più assieme perché il rapporto con lui non mi dava più niente”?
Non sono forse questi due modi di stare con una persona che nascondono, in fin dei conti, un desiderio egoistico di gratificazione personale? L’altro non è visto come un fine ma diventa un mezzo: un mezzo per farmi stare bene.
Un rapporto di amore, per essere autentico, dovrebbe invece maturare e superare il desiderio innato – e lecito! - in ciascuno di noi di sentirsi amati, voluti bene, stimati; ma l’amore non è solo questo, non può essere solo questo; è molto di più, è darsi, gratuitamente, senza pretendere nulla in cambio.
Per questo il vero modo di stare con una persona è quello che si basa sul considerarla “un altro me” e che mi spinge a dire “sto con te perché voglio farti felice, perché voglio il tuo bene, anche se dovesse costarmi rinuncia e sacrificio”.
Il linguaggio dell’amore è quello del dono e un dono non si richiede mai indietro.
Non facciamo un regalo perché così l’altro un giorno ne farà uno a me. Lo facciamo e basta.
E allora, un dono fatto in questo modo non è forse la prova più grande della nostra libertà?

Articolo pubblicato sul numero di gennaio 2012 di Dimensioni Nuove