lunedì 31 ottobre 2011

Il tempo, linguaggio dell'amore


Grazie per il tempo che mi dedichi. Me lo sono sentito dire più volte, nelle ultime settimane, da alcuni ragazzi che ho avuto la fortuna di affiancare in un momento delicato della loro vita: quello del passaggio dal liceo all’università.
Fare l’orientatore è la mia professione. Ma in questo caso i liceali in questione erano prima di tutto amici. Sono amici: persone a cui voglio bene. Per questo motivo quelle parole mi hanno un po’ sorpreso, non me le aspettavo, perché agivo per amicizia e basta.
Grazie di che? – ho pensato – Il tempo “perduto” con un amico non ha prezzo.
Eppure quelle parole mi sono rimaste impresse per molti giorni. E mi hanno dato lo spunto per riflettere su due tesori che arricchiscono la nostra vita e rendono più bello il rapporto che abbiamo con gli altri.
Il primo tesoro è il saper ringraziare. E’ una delle cose più nobili che una persona possa fare.
La aiuta a rimettersi al suo posto, che non è il centro dell’universo.
La predispone alla gioia: di solito chi ringrazia è sorridente.
La aiuta a comprendere che nella vita non tutto è dovuto. Che la vita stessa non è dovuta.
La aiuta ad apprezzare il dono.
Le insegna un linguaggio dell’amore.

Il secondo grande tesoro è il tempo. Michael Ende, nel suo romanzo Momo, scrive che il tempo è un grande eppur quotidiano mistero. Quasi tutti si limitano a prenderlo come viene e non se ne meravigliano affatto.
Troppo spesso dimentichiamo che il tempo è la risorsa più preziosa di cui disponiamo, oggi più che mai, quando sembra che tutto debba essere fatto di fretta. Per chissà cosa poi?
E ancora, Ende ci ricorda che il tempo è vita. E la vita dimora nel cuore.
Ma il cuore è la sede degli affetti. Per questo mi piace dire che il tempo è il linguaggio dell’amore. E questa volta non dico che è un linguaggio con cui si esprime l’amore. Ma è il linguaggio per eccellenza, il linguaggio universale con cui manifestiamo l’amore per un’altra persona: ogni modo con cui amiamo un’altra persona passa necessariamente per il tempo.
Gary Chapman parla di cinque linguaggi con cui ogni uomo ama o vuole essere amato. Cinque modi con cui esprimiamo o riceviamo amore: dire parole di rassicurazione, far passare momenti speciali, donare qualcosa, fare gesti di servizio e, infine, il contatto fisico.
Ogni persona predilige uno o più di questi linguaggi per esprimere e ricevere amore. Raramente li accogliamo tutti e cinque. Ebbene, il tempo li sovrasta tutti, perché in tutti entra prepotentemente: non ci sarebbero momenti speciali, né parole rassicuranti, né doni o gesti di servizio e neanche contatto fisico se non impegnassimo in tutto ciò il nostro tempo.

Il tempo è denaro, dice qualcuno. Forse è un’affermazione riduttiva. Sarebbe meglio dire che il tempo è tesoro. Un tesoro che ha il potere speciale di rendere uniche e irripetibili le nostre relazioni con le persone che amiamo.
Ed è anche il tesoro migliore che possiamo trasmettere ai ragazzi. Un tesoro che ha il potere di cambiare i loro cuori, molto più delle belle parole, che spesso lasciano il tempo che trovano.
Non ne siete convinti? Provate a guardare negli occhi un amico che vi dice “grazie per il tempo che mi dedichi…”

Articolo pubblicato sul blog della rivista Familiaria

sabato 22 ottobre 2011

Un minuto virtuale per una vita reale


Forse non ci avete mai pensato ma sapete quante cose accadono su internet in un solo minuto? Qualche settimana fa su alcuni quotidiani è stata riportata una statistica che dà l’idea di quanto tempo si investe su internet & dintorni.
Alcuni dati su tutti: in un solo minuto, in tutto il mondo vengono inviate 168 milioni di mail, inseriti 600 nuovi video su Youtube, i server di Google rispondono a quasi 700 mila interrogazioni e tali sono anche gli aggiornamenti di stato su Facebook, con 510 mila commenti postati sulle bacheche del social network più famoso del pianeta. E ancora, in un solo minuto nascono 60 nuovi blog e vengono scritti 1500 nuovi post.
Gli articoli che ne hanno parlato non hanno specificato quanto questi dati siano veritieri. In ogni caso fanno riflettere molto.

Buona parte del nostro tempo oggi è occupato dal web. Siamo costantemente connessi con il mondo, viviamo quasi tutto in tempo reale.
E’ un bene? E’ un male? Dipende; di certo possiamo dire che è un dato di fatto. Anche sui numeri che ho riportato all’inizio si può dire tutto e il contrario di tutto.
I profeti di sventure – e tra questi diversi adulti – diranno che oggi i ragazzi non comunicano più, che non hanno relazioni autentiche, che vivono in un mondo virtuale e quindi falso. Mi sembra eccessivo.
I più ottimisti arriveranno a dire, come è successo recentemente, che stare sui social network migliora addirittura la capacità di avere relazioni reali. Anche questo mi sembra un tantino esagerato.
In medio stat virtus, scriveva Aristotele, che mi piace tradurre in questo modo: in mezzo va trovato il giusto equilibrio tra le due posizioni opposte.
E allora proviamo a trovare questo giusto equilibrio: ciò che ci rende felici non è stare o meno su internet, ma entrare in relazione con qualcuno, meglio se in carne ed ossa. Inviamo mail, stiamo su Facebook, creiamo profili e aggiorniamo il nostro blog o la nostra bacheca perché sappiamo che qualcuno se ne accorgerà e ci gratificherà in qualche modo, fosse anche con il “mi piace” di Facebook. Altrimenti non lo faremmo e ci cercheremmo altre strade per manifestare la nostra natura di animali sociali, per citare ancora il grande filosofo greco.

Insomma, che la gente faccia tutte quelle cose su internet, in un solo minuto, non mi sembra un problema. Anche perché la giornata è fatta di molti altri minuti, che potremo impiegare in relazioni vere, a tu per tu, faccia a faccia.
Magari proprio grazie alla “preparazione” fatta attraverso il web… 

Articolo pubblicato sul blog della rivista Familiaria

martedì 18 ottobre 2011

La testa & il cuore


Prima a Teramo, poi a Perugia: due città, la stessa storia. Due bambini uccisi dal sole cocente, dopo essere stati dimenticati dai rispettivi papà sul sedile posteriore dell’auto.
Due fatti che, solo due mesi fa, hanno sconvolto gli italiani, anche per via della vicinanza temporale tra di essi.
Come è potuto accadere? Come è possibile che un papà possa dimenticare il proprio figlio in auto, andare a lavoro, e non pensarci per ore e ore? Come è possibile? Sono domande alle quali faccio fatica a trovare risposta.
Forse è perché ho un nipotino di otto mesi che torna costantemente nel mio cuore e nella mia mente, molte volte al giorno, che non ci riesco.
Eppure le persone verso le quali sento profonda pena, sono proprio i due papà, che difficilmente potranno liberarsi di questo dolore fino all’ultimo giorno della loro vita. Due papà che nessuno di noi può giudicare ma solo comprendere nella loro immensa sofferenza.

Torno a chiedermi: come può un papà dimenticare in auto il proprio bambino?
Dimenticare significa letteralmente fare uscire di mente. Ancora più inquietante è l’etimologia della parola “scordare”, che significa togliere dal cuore. Quando mi scordo qualcosa, è perché quella cosa non sta nel mio cuore; il mio cuore si trova da un’altra parte, è messo su qualcos’altro che per me è più importante.
Considerare il significato di queste parole mi lascia ancora più sgomento. Come può un papà fare uscire di mente il proprio figlio, come può farlo cadere dal cuore? E’ impensabile, è contro la natura umana.

Forse a qualcuno saranno venute in mente le parole del libro di Isaia: “si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro ti dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”. E’ incredibile: neanche Dio esclude che possa accadere una tragedia del genere, addirittura in una madre, che solitamente vive il rapporto con il proprio figlio in maniera più intensa del papà.
E’ un richiamo alla nostra debolezza, alla presa di coscienza dei nostri limiti. Sì, perché Dio non vive nel tempo e nello spazio; noi uomini invece sì. Ed è nel tempo e nello spazio che si manifestano i nostri limiti umani.
Qualche giorno fa mi trovavo con un amico; parlavamo di adolescenti, di come amarli e aiutarli a dare il meglio di sé. Entrambi eravamo assolutamente convinti che la risposta stava proprio in quelle due dimensioni che Kant definiva le forme pure dell’intelletto: lo spazio e il tempo.

Spazio e tempo sono il palcoscenico dove vanno in scena i nostri limiti. Ma sono anche la misura dell’amore.
E’ nella donazione dello spazio e del tempo che un uomo dimostra di amare. Fare entrare un’altra persona nel nostro spazio è sintomo di fiducia, di disponibilità, di amore, in definitiva. Entrare nello spazio di un’altra persona può avvenire solo se questa si fida di noi, se ci ritiene degni di tale passo.
Anche il tempo ci restituisce la misura dell’amore.
Michael Ende, in uno dei due splendidi romanzi che ci ha lasciato, descrive la vita di una bambina, Momo, che riesce a mettere armonia tra gli abitanti di un villaggio con il semplice fatto di donare loro il meglio di cui dispone: li ascolta, senza dire mai una parola (dona loro il proprio tempo), ricevendoli in un bosco fuori dal villaggio (li ospita nel suo spazio). Basta poco a Momo per far tornare a casa sereni tutti coloro che si rivolgono a lei con un problema, a volte apparentemente irrisolvibile.

Forse sta proprio nella attuale crisi dello spazio e soprattutto del tempo che dedichiamo alle nostre relazioni significative, la risposta alla domanda che non finisce di tormentarmi da giorni: come è potuto accadere?
Un liceale mi raccontava giorni fa della cena di fine anno con i professori e i genitori come di una cena sfigata, perché a 18 anni una cena con i prof e i genitori è effettivamente da sfigati… Mi sono messo a ridere, pensando che una frase del genere ci sta tutta se uno si mette nella testa e nel cuore di un diciottenne.
Ma poi ho pensato a quanto bene fanno queste occasioni in cui si coltivano le relazioni, anche se si tratta di feste sfigate… Occasioni che permettono, come si dice nella mia terra, di perdere tempo con gli altri.
Magari dobbiamo riappropriarci del nostro spazio e del nostro tempo, che abbiamo venduto al lavoro, alla realizzazione personale, alle “cose da fare”, sempre di fretta: non sarebbe forse il modo migliore per gustare e assaporare meglio quello che facciamo?
Magari abbiamo bisogno di condividere maggiormente lo spazio e il tempo con gli altri, con le persone che ci stanno accanto, con i nostri amici e familiari: non è forse questa la materia prima di ogni relazione interpersonale?

Mi ha sempre fatto sorridere la pubblicità del Mulino Bianco che rappresenta una famiglia felice e spensierata, seduta attorno ad un tavolo a fare colazione come se il tempo non scorresse mai, come se nessuno avesse problemi. Una famiglia che ai più sembra finta, irrealistica, impossibile che possa esistere oggi.
Perché si arriva a pensare così, mi chiedo? Perché ci sembra finta una famiglia che, dopotutto, incarna i più nascosti desideri di felicità che riempiono il cuore di un uomo?
Può darsi che abbiamo bisogno di tornare a imparare la bellezza del perdere tempo con gli altri?
Dedicare tempo e spazio alle persone che amiamo è la cosa più bella e gratificante che possiamo fare. E’ il fondamento su cui poter costruire una relazione significativa. Ed è anche la base di ogni rapporto efficacemente educativo.
Rallentiamo il ritmo e la velocità della nostra vita perché le persone che amiamo possano affiancarci ed arricchirsi della relazione con noi.
Allora, forse, ci verrà più facile rimettere il cuore e la testa nelle cose e soprattutto nelle persone che per noi contano davvero.

Articolo pubblicato sul numero di Ottobre 2011 di Fogli

domenica 9 ottobre 2011

Come me nessuno mai


Chi sono io? Alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, non si è posto questa domanda. Ed il momento in cui lo ha fatto è stato quasi sempre l’inizio dell’adolescenza, che molti chiamano l’età delle domande: chi sono io? Perché sono qui? E, soprattutto, che cosa sono venuto a fare in questo mondo? Quale sarà il mio compito?
Sono domande impegnative, che richiedono risposte altrettanto impegnative.
A volte, però, si ha come l’impressione che una persona giovane non si ponga più di tanto queste domande e che preferisca rimandare tutto a un momento successivo più o meno indefinito, quando si sentirà adulta. Ma quando possiamo dire di essere diventati adulti? E, soprattutto, per la società in cui viviamo, quando possiamo considerarci adulti?
Qualche anno fa, un noto scrittore italiano di libri per adolescenti, in un’intervista rilasciata all’apice del suo successo – era da poco uscito un film tratto da un suo romanzo – disse: Ormai ho fatto le spalle larghe alle critiche, e considerato che come autore televisivo me ne hanno dette di tutti i colori, quelle sui libri e i film le considero un lusso. Quando sarò grande recupererò con i critici scrivendo un libro di quelli che piacciono a loro…
Per la cronaca, l’intervista è del 2008 e la persona in questione è nata nel 1963. A voi il compito di calcolare la sua età e giudicare il suo “quando sarò grande”…
Adulti che sono rimasti eterni adolescenti, film che fanno della frivolezza lo stile di vita prediletto dalle nuove generazioni, canzoni, videoclip e spot pubblicitari che presentano la vita come un gioco, educatori (prof e genitori in primis) in crisi di identità: come si fa a non pensare che tutto ciò non spinga a rimanere tremendamente superficiali?
Forse qualcuno storcerà il naso; ma credo che non sia così sbagliato pensare che un adolescente tenda per natura ad essere superficiale. Ma sono altrettanto convinto che accanto a questa “leggerezza” è facile trovare anche il desiderio di fare della propria vita qualcosa di grande.
“I ragazzi, oggi, non si fanno tante domande sul senso della vita, sulla loro identità, sul loro futuro. Vanno avanti a forza di emozioni.
Quelle domande se le pongono solo se incontrano lungo la loro strada la sofferenza. Allora, forse...”
Così mi diceva un amico al quale confidavo il mio desiderio di comprendere il cuore e la vita di tanti ragazzi.
Un’affermazione che mi ha fatto pensare: sarà vero che un ragazzo, una ragazza, non si fanno mai queste domande a meno che non vadano a sbattere violentemente contro il muro della sofferenza?

La paura di non piacere
Mi chiedo se quello che succede ai ragazzi non sia tanto che essi non si facciano le domande importanti della vita, ma che abbiano una paura matta di rispondere: la paura di non piacersi, di non essere come essi vorrebbero, o di come gli altri li vorrebbero. La paura di sentirsi sfigati, per utilizzare un termine molto usato da loro stessi.
Una paura che spinge a nascondersi dietro la maschera dell’apparenza, del voler essere come gli altri, come alcuni altri in particolare: quel personaggio della TV, quel cantante, quello sportivo, quel compagno di classe che lui sì che è un figo
È l’eterno dilemma dell’essere o dell’apparire, del mostrare le nostre luci e ombre oppure illuderci di far vedere agli altri solo le luci che ci rendono come vorremmo essere.
Non è facile. Qualche tempo fa leggevo su un forum: E' da sottolineare anche che noi adolescenti, fintanto che siamo adolescenti, non abbiamo una forma precisa. Essendo capaci da poco tempo di ragionare con la propria testa siamo alla continua scoperta di cose nuove, ci riempiamo di troppe cose e fino a quando non metteremo ordine a tutto questo contenuto saremo ragazzi dalla personalità indefinita, dalla forma indefinita...
Non è facile. Eppure è questa la sfida da vincere, che ogni adolescente, in fondo, vuole vincere, anche se ne ha una paura matta. Come cambierà la vita di un ragazzo nel momento in cui egli affermerà con convinzione: In questo mondo che mi vuole uguale agli altri, la vera scoperta è sapere che io sono unico, che la ricchezza più grande che possiedo sono proprio io!
“Io sono unico!”: solo quando un ragazzo arriva a far propria questa convinzione diventa davvero libero. Fino ad allora rimane nel limbo della dipendenza dai modelli che ha scelto per orientare la propria vita e non è difficile che questa sia accompagnata da sofferenze ed errori, come quello di scambiare l’originalità con la stravaganza oppure con l’assenza di legami.
A volte, per voler essere originali a tutti i costi, dimentichiamo la nostra storia, il nostro ambiente, le nostre relazioni, la nostra responsabilità sugli altri, la vita reale… E non consideriamo che l’originalità consiste, come diceva Gaudì, nel tornare alle origini. Senza storia personale non nascono storie, come ci ricorda Alessandro D’Avenia.
Vorrei non avere questi genitori, vorrei non essere nato in questa città, vorrei essere di un’altra condizione sociale, vorrei, vorrei… Ok, ma spesso la realtà è un’altra. E il modo migliore perché la mia vita diventi quella storia particolarissima che solo io posso scrivere su questa terra, è partire dalla mia storia personale, che tiene conto della mia famiglia, della mia città, della mia condizione sociale.
E’ questo lo sfondo grazie al quale potrò dare rilievo al personaggio che sono io stesso. Come in un quadro, dove le luci risaltano proprio grazie alle ombre e viceversa.
Solo se ci accettiamo per quello che siamo potremo fare di noi stessi, della nostra originalità, un dono. Altrimenti che cosa potremo donare agli altri? Quando facciamo un regalo a una persona a cui vogliamo bene, i primi a cui il regalo deve piacere siamo proprio noi. Chi di noi regalerebbe alla propria ragazza, nel giorno del suo compleanno, una copia sbiadita de I promessi sposi? Con tutto il rispetto per il capolavoro di Manzoni, sarebbe l’inizio della fine della storia…

Vincere la paura di andare a fondo.
Quante volte ci è capitato: nessuno riesce a comprenderci, ci sembra di essere intrappolati in un sistema, in un meccanismo a cui non si può sfuggire... Fare progetti? Inutile, tanto non si avverano mai. Avere dei sogni? Sono cose da bambini. Meglio lamentarsi, è così semplice. Il problema alla base di tutto il malessere che c'è tra i ragazzi è il non sapere più chi si è. Si cerca un'identità-stereotipo perché non si riesce più a crearne una vera... Abbiamo paura di quello che siamo davvero, della verità...
Così scriveva una liceale in un tema. Ancora una volta emerge la paura di conoscersi, che spinge a rimanere sulla superficie delle cose.
Una paura tutto sommato comprensibile e naturale. Scrivevo all’inizio che gli adolescenti tendono a essere superficiali per natura, di una superficialità che normalmente decresce col passare dell’età. Iniziano a conoscersi partendo dall’esterno, e, poco alla volta, scoprono la propria interiorità e la propria identità.
Ma fino a quando rimangono in superficie – e questo vale anche per gli adulti – corrono il rischio di sentire male la realtà, di non saperla cogliere in tutta la sua pienezza.
Quante ragazze si lamentano della superficialità del loro ragazzo, che pensa al calcio mentre magari loro stanno passando un brutto momento, di cui lui non si accorge neanche?
Il superficiale sente male la realtà, anche la propria; per questo fa fatica a riconoscere persino la sua identità. E se una persona non trova la propria identità, la cosa più probabile è che la prenda in prestito fuori di sé.
Non è strano allora che si senta la necessità di apparire, presentandosi con la cinta o il cappellino firmati, con i pantaloni a vita bassa, o il piercing, o il tatuaggio senza il quale si sentirebbe uno sfigato fuori dal gruppo.
Una persona che ha un’identità presa in prestito si ritrova presto o tardi sola e vuota. Avrà difficoltà a costruire un progetto della sua vita e, inevitabilmente, andrà alla ricerca di emozioni forti che lo aiutino a colmare il vuoto che porta dentro. Ricordate il “Carpe diem” di Orazio, reso ancora più celebre da un famoso film di qualche anno fa?
Carpe diem, quam minimum credula postero: cogli l’attimo, confidando il meno possibile nel domani, scriveva il poeta latino. Un motto fatto proprio da molti ragazzi che, timorosi di confrontarsi con sé stessi, non provano neanche a reggere il peso di un futuro che fa loro solo paura.
Non è raro ascoltare frasi del genere: a che serve progettare il futuro? Il mondo non lo posso cambiare. Ma posso fare vibrare il “mio” mondo. Meglio vivere come se il mondo finisse domani. Ma se tutto dipende dal momento presente e si vive come se il domani non ci fosse, allora ogni attimo presente assume una dimensione enorme e dinanzi a qualsiasi cosa che non soddisfa o delude si avverte un senso di tragedia e irrimediabilità.
Senza la dimensione del futuro tutto si fa drammatico, anche un brufolo davanti allo specchio diventa motivo per non uscire di casa quel giorno.
Di fronte a tutto ciò, la risposta migliore è quella di alimentare la dimensione del desiderio, inteso come la capacità di immaginarsi, nel tempo, migliori di come si è adesso. Un desiderio che, a differenza dell’illusione, si fonda su un progetto realistico. Un desiderio che sarà la spinta per fare della propria vita qualcosa di veramente grande.
E dato che ho riportato la frase di Orazio, citata ne L’attimo fuggente, mi piace chiudere queste riflessioni con una delle frasi più belle che il prof. Keating rivolge ai suoi ragazzi: che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso.
Quale sarà il tuo verso?

Articolo pubblicato sul numero di ottobre di Dimensioni Nuove