Chi sono io? Alzi la mano chi, almeno una volta nella vita,
non si è posto questa domanda. Ed il momento in cui lo ha fatto è stato quasi
sempre l’inizio dell’adolescenza, che molti chiamano l’età delle domande: chi sono io? Perché sono qui? E, soprattutto,
che cosa sono venuto a fare in questo mondo? Quale sarà il mio compito?
Sono domande impegnative, che richiedono risposte
altrettanto impegnative.
A volte, però, si ha come l’impressione che una persona
giovane non si ponga più di tanto queste domande e che preferisca rimandare
tutto a un momento successivo più o meno indefinito, quando si sentirà adulta. Ma
quando possiamo dire di essere diventati adulti? E, soprattutto, per la società
in cui viviamo, quando possiamo considerarci adulti?
Qualche anno fa, un noto scrittore italiano di libri per
adolescenti, in un’intervista rilasciata all’apice del suo successo – era da
poco uscito un film tratto da un suo romanzo – disse: Ormai ho fatto le
spalle larghe alle critiche, e considerato che come autore televisivo me ne
hanno dette di tutti i colori, quelle sui libri e i film le considero un lusso.
Quando sarò grande recupererò con i critici scrivendo un libro di quelli che
piacciono a loro…
Per la cronaca, l’intervista è del 2008 e la persona in
questione è nata nel 1963. A
voi il compito di calcolare la sua età e giudicare il suo “quando sarò grande”…
Adulti che sono rimasti eterni adolescenti, film che fanno
della frivolezza lo stile di vita prediletto dalle nuove generazioni, canzoni,
videoclip e spot pubblicitari che presentano la vita come un gioco, educatori
(prof e genitori in primis) in crisi di identità: come si fa a non pensare che
tutto ciò non spinga a rimanere tremendamente superficiali?
Forse qualcuno storcerà il naso; ma credo che non sia così
sbagliato pensare che un adolescente tenda per natura ad essere superficiale.
Ma sono altrettanto convinto che accanto a questa “leggerezza” è facile trovare
anche il desiderio di fare della propria vita qualcosa di grande.
“I ragazzi, oggi, non
si fanno tante domande sul senso della vita, sulla loro identità, sul loro
futuro. Vanno avanti a forza di emozioni.
Quelle domande se le
pongono solo se incontrano lungo la loro strada la sofferenza. Allora,
forse...”
Così mi diceva un amico al quale confidavo il mio desiderio
di comprendere il cuore e la vita di tanti ragazzi.
Un’affermazione che mi ha fatto pensare: sarà vero che un
ragazzo, una ragazza, non si fanno mai queste domande a meno che non vadano a
sbattere violentemente contro il muro della sofferenza?
La paura di non
piacere
Mi chiedo se quello che succede ai ragazzi non sia tanto che
essi non si facciano le domande importanti della vita, ma che abbiano una paura
matta di rispondere: la paura di non piacersi, di non essere come essi vorrebbero,
o di come gli altri li vorrebbero. La paura di sentirsi sfigati, per utilizzare un termine molto usato da loro stessi.
Una paura che spinge a nascondersi dietro la maschera
dell’apparenza, del voler essere come gli altri, come alcuni altri in particolare: quel personaggio della TV, quel
cantante, quello sportivo, quel compagno di classe che lui sì che è un figo…
È l’eterno dilemma dell’essere o dell’apparire, del mostrare
le nostre luci e ombre oppure illuderci di far vedere agli altri solo le luci
che ci rendono come vorremmo essere.
Non è facile. Qualche tempo fa leggevo su un forum: E' da sottolineare anche che noi
adolescenti, fintanto che siamo adolescenti, non abbiamo una forma precisa.
Essendo capaci da poco tempo di ragionare con la propria testa siamo alla
continua scoperta di cose nuove, ci riempiamo di troppe cose e fino a quando
non metteremo ordine a tutto questo contenuto saremo ragazzi dalla personalità
indefinita, dalla forma indefinita...
Non è facile. Eppure è questa la sfida da vincere, che ogni
adolescente, in fondo, vuole vincere, anche se ne ha una paura matta. Come
cambierà la vita di un ragazzo nel momento in cui egli affermerà con
convinzione: In questo mondo che mi vuole
uguale agli altri, la vera scoperta è sapere che io sono unico, che la
ricchezza più grande che possiedo sono proprio io!
“Io sono unico!”: solo
quando un ragazzo arriva a far propria questa convinzione diventa davvero libero.
Fino ad allora rimane nel limbo della dipendenza dai modelli che ha scelto per
orientare la propria vita e non è difficile che questa sia accompagnata da sofferenze
ed errori, come quello di scambiare l’originalità con la stravaganza oppure con
l’assenza di legami.
A volte, per voler essere originali a tutti i costi,
dimentichiamo la nostra storia, il nostro ambiente, le nostre relazioni, la
nostra responsabilità sugli altri, la vita reale… E non consideriamo che
l’originalità consiste, come diceva Gaudì, nel tornare alle origini. Senza storia personale non nascono storie, come ci ricorda Alessandro
D’Avenia.
Vorrei non avere
questi genitori, vorrei non essere nato in questa città, vorrei essere di
un’altra condizione sociale, vorrei, vorrei… Ok, ma spesso la realtà è
un’altra. E il modo migliore perché la mia vita diventi quella storia particolarissima che solo io posso
scrivere su questa terra, è partire dalla mia
storia personale, che tiene conto della mia
famiglia, della mia città, della mia condizione sociale.
E’ questo lo sfondo grazie al quale potrò dare rilievo al
personaggio che sono io stesso. Come in un quadro, dove le luci risaltano
proprio grazie alle ombre e viceversa.
Solo se ci accettiamo per quello che siamo potremo fare di
noi stessi, della nostra originalità, un dono. Altrimenti che cosa potremo
donare agli altri? Quando facciamo un regalo a una persona a cui vogliamo bene,
i primi a cui il regalo deve piacere siamo proprio noi. Chi di noi regalerebbe
alla propria ragazza, nel giorno del suo compleanno, una copia sbiadita de I promessi sposi? Con tutto il rispetto
per il capolavoro di Manzoni, sarebbe l’inizio della fine della storia…
Vincere la paura di
andare a fondo.
Quante volte ci è
capitato: nessuno riesce a comprenderci, ci sembra di essere intrappolati in un
sistema, in un meccanismo a cui non si può sfuggire... Fare progetti? Inutile, tanto non si avverano mai. Avere dei sogni? Sono cose da bambini.
Meglio lamentarsi, è così semplice. Il problema alla base di tutto il malessere
che c'è tra i ragazzi è il non sapere più chi si è. Si cerca un'identità-stereotipo
perché non si riesce più a crearne una vera... Abbiamo paura di quello che
siamo davvero, della verità...
Così scriveva una liceale in un tema. Ancora una volta
emerge la paura di conoscersi, che spinge a rimanere sulla superficie delle
cose.
Una paura tutto sommato comprensibile e naturale. Scrivevo
all’inizio che gli adolescenti tendono a essere superficiali per natura, di una
superficialità che normalmente decresce col passare dell’età. Iniziano a
conoscersi partendo dall’esterno, e, poco alla volta, scoprono la propria
interiorità e la propria identità.
Ma fino a quando rimangono in superficie – e questo vale anche
per gli adulti – corrono il rischio di sentire male la realtà, di non saperla
cogliere in tutta la sua pienezza.
Quante ragazze si lamentano della superficialità del loro ragazzo,
che pensa al calcio mentre magari loro stanno passando un brutto momento, di
cui lui non si accorge neanche?
Il superficiale sente male la realtà, anche la propria; per
questo fa fatica a riconoscere persino la sua identità. E se una persona non
trova la propria identità, la cosa più probabile è che la prenda in prestito
fuori di sé.
Non è strano allora che si senta la necessità di apparire,
presentandosi con la cinta o il cappellino firmati, con i pantaloni a vita
bassa, o il piercing, o il tatuaggio senza il quale si sentirebbe uno sfigato fuori dal gruppo.
Una persona che ha un’identità presa in prestito si ritrova
presto o tardi sola e vuota. Avrà difficoltà a costruire un progetto della sua
vita e, inevitabilmente, andrà alla ricerca di emozioni forti che lo aiutino a
colmare il vuoto che porta dentro. Ricordate il “Carpe diem” di Orazio, reso ancora più celebre da un famoso film di
qualche anno fa?
Carpe diem, quam
minimum credula postero: cogli l’attimo, confidando il meno possibile nel
domani, scriveva il poeta latino. Un motto fatto proprio da molti ragazzi
che, timorosi di confrontarsi con sé stessi, non provano neanche a reggere il
peso di un futuro che fa loro solo paura.
Non è raro ascoltare frasi del genere: a che serve progettare il futuro? Il mondo non lo posso cambiare. Ma
posso fare vibrare il “mio” mondo. Meglio vivere come se il mondo finisse
domani. Ma se tutto dipende dal momento presente e si vive come se il
domani non ci fosse, allora ogni attimo presente assume una dimensione enorme e
dinanzi a qualsiasi cosa che non soddisfa o delude si avverte un senso di
tragedia e irrimediabilità.
Senza la dimensione del futuro tutto si fa drammatico, anche
un brufolo davanti allo specchio diventa motivo per non uscire di casa quel
giorno.
Di fronte a tutto ciò, la risposta migliore è quella di alimentare
la dimensione del desiderio, inteso come la capacità di immaginarsi, nel tempo,
migliori di come si è adesso. Un desiderio che, a differenza dell’illusione, si
fonda su un progetto realistico. Un desiderio che sarà la spinta per fare della
propria vita qualcosa di veramente grande.
E dato che ho riportato la frase di Orazio, citata ne L’attimo fuggente, mi piace chiudere queste
riflessioni con una delle frasi più belle che il prof. Keating rivolge ai suoi
ragazzi: che il potente spettacolo
continua e che tu puoi contribuire con un verso.
Quale sarà il tuo
verso?
Articolo pubblicato sul numero di ottobre di Dimensioni Nuove