venerdì 29 giugno 2012

Se dici basta sei perduto


Qualche tempo fa una collega mi ha detto che non era sicura se quella mattina sarebbe andata a svolgere il suo consueto incarico settimanale nella scuola in cui fa colloqui di orientamento agli studenti dell’ultimo anno. “Non so se andrò – mi diceva – perché ieri si è suicidato un ragazzo e non so se oggi ci saranno i funerali”.
Le sue parole mi hanno colpito particolarmente. Non so spiegare il perché, dato che non era la prima volta che sentivo di un ragazzo che si toglieva la vita. Tra l’altro neanche lo conoscevo. Ho pensato subito alla grande fragilità emotiva di cui soffrono oggi molti adolescenti. Una malattia presente, purtroppo, anche in diversi adulti che non aiutano certo chi guarda loro con la speranza di poter costruire un futuro migliore. Sono molti i giovani e gli adulti che a un certo punto della loro vita dicono basta e che a volte lo fanno in maniera così devastante.

Mi sono tornate alla memoria, quasi spontaneamente, quelle parole di S. Agostino di Ippona: se dici basta sei perduto. Parole forti, decise, che non ammettono mezze misure, e che sembrano scritte per molti uomini di oggi, così propensi a tirare i remi in barca tutte le volte che la vita si fa dura. E invece sono state scritte ben diciassette secoli fa dall’illustre filosofo nonché santo, vescovo e dottore della Chiesa cattolica.
Se dici basta sei perduto. Dovrebbe essere il motto di ogni educatore, di ogni persona chiamata per vocazione a dare speranza. Chiamata a mostrare con la vita che vale la pena spendere la propria esistenza con il desiderio di lasciare a chi ci seguirà un mondo migliore di come lo abbiamo trovato noi.

Se mi chiedessero quale dovrebbe essere la prima qualità che un educatore oggi debba possedere non esiterei neanche un istante a indicare la speranza. Sì, perchè se gli manca la pazienza potrà sempre supplire con altre qualità. Se gli manca la capacitá di comunicare riuscirà comunque a trasmettere le proprie idee, anche se probabilmente con più fatica.
Se non possiede la capacità di comprensione – l'empatia – gli sarà più difficile capire chi si trova davanti ma alla fine il messaggio passerà egualmente.
Ma se a un educatore manca la speranza non ci sarà nessun’altra qualità che potrà sostituire questo grave vuoto. Sarebbe come guidare al buio e senza bussola. Con l'aggravante che un educatore non guida mai da solo ma porta con sé altre persone. Muovendosi al buio e senza nessun mezzo per orientarsi finirebbe per schiantarsi: e se anche riuscisse ad evitarlo, presto o tardi, la mancanza di speranza di arrivare alla meta spegnerebbe ogni speranza. Mi si perdoni il gioco di parole.
La speranza di giungere a destinazione è il motore che ci spinge ad andare avanti. Lo diceva già Seneca nel primo secolo: non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare.
E' impossibile mantenere costante il desiderio di andare avanti se non sappiamo qual è la nostra meta o se la consideriamo irraggiungibile. Prima o poi si getta la spugna.

Bisogna innanzitutto avere chiara la destinazione del nostro cammino, quindi. Camminare per camminare, prima o poi stanca. Anche se oggi tutto sembra dirci il contrario: un famoso film italiano di qualche anno fa faceva dire ad uno dei protagonisti: “l’importante non è quello che trovi alla fine di una corsa; l’importante è quello che provi mentre corri”. Già, peccato però che non si corre all’infinito e che prima o poi ci si ferma a chiedersi verso quale meta è indirizzata la nostra vita. E che cosa succede se ci si accorge che non c’è nessun obiettivo per cui valga la pena continuare a vivere? E soprattutto che cosa succede quando lo si scopre nel momento in cui recuperare gli anni perduti diventa difficile se non impossibile?
Ma non è sufficiente avere una meta per alimentare la speranza di continuare a correre verso di essa. Abbiamo anche bisogno di considerare che l'obiettivo sia effettivamente raggiungibile. Come posso sperare, per esempio, di laurearmi a Oxford se non conosco l'inglese? Dovrei prima imparare la lingua.

Mi rendo conto che sperare che le cose possano cambiare in meglio in un mondo caratterizzato da incertezze e dubbi, da paure e preoccupazioni, non è facile neanche per il più ottimista degli educatori. Ma la speranza non è necessariamente ottimismo. Non è la convinzione che qualcosa andrà bene ma la certezza che una cosa ha senso in ogni caso, leggevo tempo fa sul blog di uno scrittore italiano.
Per questo un educatore può e deve fondare la sua opera d’arte – e ogni uomo che diventa più uomo è un’opera d’arte – sulla speranza che ciò che fa ha un senso, perché si inserisce in un disegno che molto spesso è più grande di lui e di cui lui non è altro che un ingranaggio, piccolo ma essenziale.
Non solo ha il dovere di pensare che il mondo può essere migliore, ma anche che con qualsiasi persona gli venga affidata si possa fare qualcosa di grande, anche se i suoi sforzi si concludessero in un apparente fallimento. Il prof. Hundert, uno dei protagonisti de Il club degli imperatori, dice alla fine del film che “il valore di una vita non è determinato da un singolo fallimento, né da un solitario successo. Per quanto possa inciampare un insegnante è votato a sperare sempre che con lo studio si possa modificare il carattere di un ragazzo e, di conseguenza, il destino di un uomo”.


L’alternativa è la mancanza di credibilità. I ragazzi si accorgono subito se gli adulti sono i primi a non credere realmente a quello che professano; se loro per primi vivono quello che insegnano.
E se trovano attorno a sé adulti incapaci di accendersi per qualcosa di grande, rimangono irrimediabilmente spenti anch'essi. Quanti studenti si lamentano della demotivazione dei propri insegnanti?
Se il mondo oggi è in crisi di speranza forse è perché lo sono molti adulti. Hanno abdicato al loro ruolo di adulti, cioè di persone mature, cresciute. Adulto deriva dal latino adultum che è il passato di adolesco, che significa crescere; per questo un adulto ha il compito di mostrare a chi ancora è adolescente, cioè sta crescendo, la strada maestra verso la felicità, strada che è strettamente connessa alla ricerca del bene personale e del bene comune.
Invece di insistere che non c'è lavoro diamoci da fare per cambiare quello che sta nelle nostre possibilità. Invece di dire che la famiglia non funziona più e dura poco, che non esiste l'amore per sempre, che non ha senso sposarsi, mostriamo con la nostra vita che cosa significa amare chi ci sta accanto. Invece di screditare l’amicizia agli occhi dei ragazzi, perché l'amico prima o poi ti rifila sempre una fregatura, circondiamoci di amici a cui noi per primi diamo il meglio di noi stessi, con la convinzione che la vita ci restituirà molto di più.

Non ci nascondiamo dietro a un dito. Che lo si creda o no, noi siamo i modelli che i ragazzi guardano. Se loro sono spenti è perché vedono che noi siamo spenti. È come se con la loro vita ci dicessero: Se tu sei così, a che serve crescere? Che senso ha diventare come te? Perché impegnarsi per un futuro migliore, se i risultati sono questi?
Le cause dell'emergenza educativa non sono da addebitare ai giovani. Il problema è nostro, siamo noi adulti che dobbiamo cambiare. Mettiamocelo bene in testa.
E allora ripartiamo da noi. Ripartiamo dal presentare ai ragazzi modelli credibili, veri, autentici. Modelli attraenti. Modelli che diano loro la speranza che un mondo migliore è possibile.
È dall'amore alla vita che nasce l'amore alla vita, ha scritto una scrittrice italiana recentemente scomparsa.
Iniziamo noi ad amare la vita. Mostriamo con tutto il nostro essere che la vita è bella.
Ci meraviglieremo dei risultati sui nostri ragazzi.

Articolo pubblicato su Fogli di maggio 2012

venerdì 22 giugno 2012

Ana e Mia: quando l’alimentazione diventa un problema.


La mia vita è controllata da due personalità: Ana e Mia. Ana mi fa stare bene, mi fa sentire bella, mi fa sentire importante, mi fa sentire libera. Mia mi uccide dentro, mi fa sbagliare, mi rende brutta, mi rende cattiva, mi rende un fallimento. Due personalità contrastanti ma così legate l'una all'altra...Si alternano, si intrecciano, mi fanno diventare pazza. Devo uccidere mia prima che lei uccida me e la ucciderò grazie ad ana.
Inizia così il mio viaggio alla scoperta di un mondo a me sconosciuto, fatto di ragazzi ma soprattutto ragazze alle prese con due tra i disordini alimentari più diffusi e devastanti che esistono tra gli adolescenti: l’anoressia e la bulimia.
L’anoressia, che significa letteralmente “senza appetito”, spinge una persona a ridurre fino a quasi interrompere la propria alimentazione per la paura ossessiva di ingrassare. La persona anoressica non prende cibo e fa di tutto per dimagrire: spesso vomita per evitare di metabolizzare il cibo ingerito.
Molto simile all’anoressia è la bulimia, che significa letteralmente “fame da bue”: essa consiste in uno smodato desiderio di mangiare, seguito da forti sensi di colpa che portano la persona bulimica a voler eliminare il cibo ingerito attraverso il vomito autoindotto o l’uso esasperato di lassativi.
Due malattie di cui si parla meno di quanto si dovrebbe e attorno alle quali esiste un mondo nascosto e spesso clandestino costituito da centinaia di siti, blog e forum che coinvolgono migliaia di adolescenti e non solo.

Quello che si legge sul web fa rabbrividire e dà l’idea di quanta sofferenza ci sia dietro queste due malattie:
“Toglietevi dalla testa che vomitando risolvete la schifosissima abbuffata in cui siete cadute! L’abbuffata non è ammissibile! E’ solo in caso di emergenza, deve essere un gesto estremo, all’abbuffata non bisogna mai arrivarci! MAI! ANA è ordinata, pulita, perfetta! Ti mette il potere e il controllo nelle mani…”
E ancora:
“Vomito incessantemente tutto il giorno e più vomito più mi sento in colpa, più mi faccio schifo, più mangio e più vomito”.
Ancora più inquietante è quest’altra testimonianza:
“Ho 16 anni e l’anno scorso ero ana pesavo 34/35 kg x 1,66 di altezza. Poi ho deciso di uscirne e a giugno pesavo 49 kg e non ero né ana né mia. Ora, però purtroppo sono mia e voglio tornare ana!!!ciao un bacio a tutte…”

Si tratta di un mondo che, se da un lato mi è distante – sono un educatore, non uno psicologo o un medico -, dall’altro mi inquieta per le conseguenze devastanti che ha su molti adolescenti.
Si tratta di malattie che richiedono interventi specialistici, di ambito soprattutto psichiatrico oltre che alimentare. Tuttavia da educatore mi interrogo su quali siano le cause che portano molti ragazzi ma soprattutto ragazze ad avere con il proprio corpo un rapporto così conflittuale da rovinare la propria esistenza e, ovviamente, quella di chi sta loro accanto.
Mi rendo conto che probabilmente le cause sono tante e complesse ma non riesco a credere che, di fronte alla non accettazione patologica del proprio corpo, non ci sia anche una carenza educativa da parte di chi quella accettazione dovrebbe favorirla sin dalla nascita, ossia i genitori.
Lungi da me il desiderio di colpevolizzare chi spesso soffre con i figli e più dei figli per una situazione dolorosa e difficile da gestire.

Tuttavia non posso fare a meno di chiedermi: dove sono i genitori quando uno dei loro figli comincia a dimagrire in maniera così vistosa da scomparire quasi dietro ai vestiti? Come fanno a non accorgersene? Che modelli offrono ai loro figli perché questi possano identificarsi con essi? Quanto dialogo cercano di instaurare con loro sin da quando sono bambini?
Forse queste sembreranno domande semplici e scontate. Tuttavia è con azioni semplici e abituali che si formano i figli. L’educazione non è mai frutto di pratiche eccentriche o straordinarie. Straordinari sono quegli interventi che diventano necessari per sistemare qualcosa che a un certo punto ha smesso di funzionare correttamente. Non sarebbe meglio pensarci prima?

Articolo pubblicato sulla versione online di Familiaria

venerdì 15 giugno 2012

Un territorio comune


“Come è andata oggi a scuola?” Chi di noi non si è mai sentito fare questa domanda, tanto temuta quanto odiata, da parte dei propri genitori? Temuta, perché vorremmo fare tutto all’infuori che dover raccontare con parole sempre nuove quello che facciamo in maniera per noi ripetitiva e abituale ogni giorno a scuola. Odiata, perché è sempre la stessa domanda! E non è strano allora che si dia sempre la stessa risposta: Bene!
Il rapporto tra genitori e figli è una delle cose più difficili da gestire durante gli anni in cui si smette di essere bambini e ci si avvia verso l’età adulta. “L’adolescenza è quel periodo della vita in cui i genitori diventano insopportabili”, ho letto tempo fa in un libro sull’adolescenza. Sono le parole con cui un liceale risponde al suo prof che gli chiede di definire, a parole sue, questo periodo della vita.
Una definizione senz’altro poco scientifica, ma sicuramente divertente ed efficace. Una definizione che ben si collega alle parole con le quali ho iniziato questo articolo. Perché sentirsi porre sempre le stesse domande, in un periodo della vita in cui il rapporto con i genitori viene completamente ridisegnato, a volte è proprio insopportabile. Così come è difficile mettersi d’accordo sull’orario del rientro serale o sugli amici che “è bene o non è bene frequentare”, o sul modo di andare vestiti e via dicendo. Situazioni che spesso si concludono con porte sbattute, urla reciproche, musi lunghi e guerre fredde che durano per giorni e giorni.

Eppure, a sentire le due campane – da un lato i genitori, dall’altro i figli – verrebbe di dare ragione a entrambe. Ecco come un papà alle prese con un rapporto problematico con i suoi figli, commentava l’articolo in cui un docente faceva un elenco di comportamenti che ogni buon genitore dovrebbe avere: “Caro prof, ti posso garantire che essere genitori è difficilissimo, anche se tu fai tutto quello che annoti nel tuo post, spesso ti ritrovi contro i tuoi figli, capita di sentirti definire nei modi più sconfortanti... Sapessi quante volte ho pianto per il silenzio dei miei figli. Ho pianto per le loro risposte alle mie richieste. Sono stato quasi sempre molto disponibile, ho dedicato loro il mio tempo fuori dal lavoro, li ho sorretti, spalleggiati e coccolati, li ho amati, li coccolo e li amo ancora di più ora, sono la vita mia e di mia moglie, ma credimi essere genitori è la missione più difficile…”
E concludeva, rassegnato: “Prof, ti prego di' ai nostri figli quanto li amiamo e quanto cerchiamo molte volte in loro uno sguardo che ci indichi il momento di parlare e di esserci.”
Uno sfogo comprensibile, verrebbe da dire. Come non dare torto a questo papà che sembrerebbe mettercela tutta per continuare a comunicare con ragazzi che, dal canto loro, sembrano rispondere ignorando la sua sofferenza? E come non mettersi dalla parte di tanti papà e mamme che si trovano nella stessa situazione?
Già, ma come la mettiamo con gli altrettanto comprensibili e leciti desideri di tanti adolescenti che vogliono essere trattati da grandi, avere la giusta autonomia, pretendere il rispetto della propria riservatezza, essere tenuti maggiormente in considerazione?
Verrebbe di dare ragione a entrambi, scrivevo più sopra. Ma non sempre è possibile, anzi spesso è proprio dura riuscire a trovare una soluzione che accontenti entrambi, che tenga conto delle richieste degli uni e degli altri.
E allora che fare? Come costruire un ponte tra due mondi che sembrano, anzi, sono così diversi?

Un territorio comune
Proviamo ad individuare alcune possibili strategie per gettare un ponte da una riva all’altra. A cominciare, per esempio, dal trovare assieme un territorio comune su cui confrontarsi. I genitori non vogliono forse la felicità dei loro figli? Certamente sì, a loro modo però! E i figli, non vogliono per sè stessi la stessa cosa, cioè essere felici? In questo caso, però le prospettive sono assolutamente diverse da quelle dei genitori.
Si tratta allora di trovare dei punti in comune, per esempio provando a mettersi gli uni nei panni degli altri. E’ quello che gli esperti chiamano empatia, una parola che significa “provare la stessa passione, gli stessi sentimenti” e che a me piace tradurre in “guardare il mondo con gli occhi dell’altro”. Basterebbe questo per ridurre drasticamente molte delle incomprensioni che nascono tra genitori e figli, ma anche tra fratelli e sorelle, tra fidanzati, tra amici.
La comunicazione tra genitori e figli funziona infatti come qualsiasi altra forma di comunicazione. E quando c’è qualcosa che non va è perché in uno dei due – o in tutti e due – c’è qualche problema di fondo, oppure perché ci sono degli ostacoli tra le due persone che comunicano, oppure perché i due utilizzano linguaggi diversi. Quest’ultimo caso riguarda molto da vicino proprio la comunicazione tra genitori e figli che, per ovvi motivi, parlano e parleranno sempre due linguaggi completamente diversi. Se così non fosse, vorrebbe dire che i genitori hanno smesso di fare i genitori per indossare i panni degli amici – sarebbe meglio dire degli “amiconi” – dei figli. E questo comporterebbe altri problemi, ben più seri…
Ma torniamo all’empatia, a questa capacità di mettersi nei panni dell’altro per comprendere le ragioni del suo agire.
Pensiamo, per esempio, alla mamma che risponde alla figlia che vuole rientrare più tardi dell’orario previsto: “Un giorno capirai, quando sarai mamma e avrai i figli che vorranno rientrare alle due di notte!”. E perché non provare a capirlo adesso, invece? Perché aspettare anni per comprendere il motivo per cui i miei genitori sono così insopportabili su questo punto?
Qualche tempo fa, parlando con una ragazza del rapporto con i suoi genitori, questa mi diceva: “L’unica cosa di cui mi lamento è che mi chiedono ogni giorno ‘come è andata a scuola?’ perché credo che se mi assillano così è peggio e inutile: glielo dico comunque senza bisogno che me lo chiedono”.
Devo confessare che il dubbio che poi glielo dicesse comunque mi è rimasto… Eppure non è forse questo un esempio di come, mettendosi nei panni dei genitori e facendo il primo passo, si potrebbero evitare tante guerre familiari? Basterebbe, appunto, “dirglielo comunque senza bisogno che me lo chiedono”.
Certo, anche i genitori dovrebbero fare la stessa cosa ma molte volte, in un confronto difficile con un’altra persona, basta che uno dei due faccia il primo passo perché anche l’altro ammorbidisca la propria posizione.

Lasciamo che anche il tempo faccia la sua parte
Nel discorso tenuto agli universitari di Stanford nel 2005, Steve Jobs, ha parlato di come spesso, per trovare un senso pieno a quello che ci succede, dobbiamo attendere che passi molto tempo: “non potete sperare di unire i puntini guardando avanti, potete farlo solo guardandovi alle spalle: dovete quindi avere fiducia che, nel futuro, i puntini che ora vi paiono senza senso possano in qualche modo unirsi nel futuro”.
Jobs si riferiva allo studio, all’università, alla carriera professionale. Ma le sue parole possono certamente applicarsi anche alle incomprensioni che ci sono tra genitori e figli. Insomma, è lo stesso concetto dell’odioso “un giorno capirai”, solo che detto da Jobs suona un tantino più simpatico.
Già, perché poi c’è anche il problema di come si dicono le cose. Perché tra mille modi di dire le cose si deve per forza scegliere il peggiore? Basterebbe un po’ più di attenzione, di delicatezza, di empatia, per usare parole che sono più efficaci proprio perché evitano di ferire l’altra persona.
“Non trovi mai niente nella tua stanza! Questa casa non è un albergo! Non studi mai!”, gridano i genitori. Ma anche i figli non scherzano: “I genitori di Tizio sono migliori di voi! Siete vecchi! Non capite niente di noi!”
Il risultato è che ognuno rimane sulla propria posizione, anzi direi che questo genere di accuse finisce per alzare barriere sempre più invalicabili.
A volte – e anche questo vale per ogni forma di relazione tra due persone – è meglio lasciar raffreddare gli animi, attendere un po’ di tempo prima di affrontare il problema, pensare se le parole che sto per dire “a me darebbero un fastidio tremendo”; se è così, perché usarle verso l’altro?
Sono considerazioni forse ovvie, eppure nel nostro rapporto con gli altri commettiamo spesso l’errore di dimenticarle.
Basterebbe davvero un po’ più di attenzione per comunicare meglio. Tutto sommato è semplice, no?

Articolo pubblicato su Dimensioni Nuove di aprile 2012

martedì 12 giugno 2012

Pedagogia del dolore


È un pomeriggio primaverile e sto parlando a un folto gruppo di genitori, nella scuola di un paese siciliano. L’argomento è l’adolescenza, un tema sentito da tanti papà e soprattutto da tante mamme, quando toccano con mano la difficoltà di gestire un figlio adolescente.
A un certo punto il discorso cade sull’autonomia dei loro figli, sull’importanza di farli diventare capaci di prendere e portare avanti da soli le decisioni che riguardano la loro vita. Una meta difficilissima, in una società come la nostra, dove solo da pochi anni è stato coniato un termine – bamboccione – che la dice lunga sulla capacità dei figli di tagliare i ponti con le rispettive famiglie.
Una meta che sembra sempre più lontana dalla mente di molti genitori, preoccupati più di non far mancare niente ai propri figli che di aiutarli a saper vivere da soli.
Stiamo parlando di questo obiettivo, con i genitori presenti in sala, quando una mamma interviene e mi dice: «E adesso che mia figlia sta per terminare il liceo, lei si rende conto che dovrò starle dietro perché non dimentichi di fare l’iscrizione all’università? So già che dovrò essere io a prepararle i documenti e a informarmi su tutto quello che serve. Insomma, alla fine dovrò fare tutto io, perché la conosco bene e finirebbe per non riuscire a iscriversi in tempo».

Rimango pensieroso mentre la signora continua a parlare. Alla fine provo a dire la mia opinione, spalleggiato da alcuni genitori presenti, perplessi come me, ma non c’è verso di farle cambiare idea.
Continuo a chiederle: perché non rischiare di farle fare uno sbaglio che potrebbe aiutarla a diventare finalmente «grande»?

E’ una domanda che continuo a farmi tutte le volte che tocco con mano la fragilità degli adolescenti. E’ un tema di cui si parla sempre più spesso, quando emerge la difficoltà di tanti ragazzi a reggere il peso di una delusione amorosa o di un insuccesso professionale, per esempio; quando emerge in qualche modo la difficoltà a gestire la complessità della vita. Qualche tempo fa, a Napoli una ragazza si è suicidata dopo aver mentito ai genitori facendo credere loro di essersi laureata, perché non ha avuto il coraggio di dire che non riusciva a laurearsi. E ancora, lo scorso anno a Palermo un giovane dottorando si è lanciato dal settimo piano dell’edificio universitario dove lavorava, perché angosciato dalla mancanza di prospettive professionali.

Ora, è indubbio che si tratta di drammi che richiedono rispetto nei confronti delle vittime e del loro dolore. Ma saremmo incoscienti se non riflettessimo a fondo sui motivi che portano un giovane a fare scelte così drastiche e che denotano l’enorme difficoltà a reggere il peso della sofferenza.
Oggi molti giovani sono incapaci di soffrire. E non di rado la colpa è dei loro genitori, che fanno di tutto per risparmiare ai figli, sin da piccoli, ogni difficoltà e ogni forma seppur lieve di sofferenza; a volte la ritengono un’esperienza addirittura traumatica. Ma per quanto essi si sforzino, non potranno mai impedire completamente che i figli sperimentino la realtà del dolore e della sofferenza.
La sofferenza fa parte della vita come l’errore fa parte dell’apprendimento. Non esiste apprendimento che non faccia esperienza degli errori; anzi, proprio questi spesso aiutano a imparare meglio. Allo stesso modo, non esiste vita nella quale non si faccia esperienza del dolore. Un’esperienza salutare, perché il dolore spesso insegna ad apprezzare le cose che contano nella vita.
Per questo è preoccupante che molti genitori vogliano eliminarlo dalla vita dei loro figli. È preoccupante perché così facendo li priveranno del mezzo più importante che i figli hanno per apprezzare e amare la vita.
Che cos’è il dolore, infatti, se non la reazione a un male fisico o morale? Esso non ci rimanda, per contrasto, all’idea del bene? Così come le ombre in un quadro fanno risaltare le luci, così come l’amaro ci fa gustare meglio il dolce, il dolore e la sofferenza ci permettono di apprezzare le cose belle della vita; sembra scontato eppure non lo è.

Eppure oggi tanta gente giovane è letteralmente terrorizzata dall’idea di soffrire. Molte nuove mamme hanno orrore del parto naturale, per esempio. I ragazzi sono spaventati dalla solitudine, cercano continuamente la compagnia del gruppo, di qualcosa o di qualcuno che non li faccia mai sentire soli. Ma la solitudine è necessaria per ascoltarsi, conoscersi, amarsi; tre tappe senza le quali non è possibile amare un’altra persona.
Ancora, molti ragazzi sono terrorizzati dalla noia, che è diventata il nemico principale da combattere. Nella loro vita non ci può essere spazio per la noia: ogni desiderio dev’essere immediatamente soddisfatto. E, in un circolo vizioso che si autoalimenta, il piacere continuamente soddisfatto finisce per atrofizzare proprio la capacità stessa di desiderare.

Il dolore ci aiuta a comprendere il valore delle cose. La fatica che accompagna una conquista dà infatti un grande valore all’obiettivo raggiunto; ma se le cose si ottengono senza soffrire, senza sforzo, che valore avranno?
Il dolore ci aiuta a capire che nella vita non tutto ci è dovuto; e ci predispone più facilmente a ringraziare per quello che ci viene donato dalla vita stessa, ogni giorno. Eppure in tanti oggi cercano di fuggire il dolore. Sarà anche per questo che molte persone non capiscono il senso del ringraziare?
Il dolore è la pietra di paragone dell’amore, diceva qualcuno. Sarà per questo che oggi molti non sono più capaci di amare?

Certo, è brutto veder soffrire una persona cara, ancora di più se si tratta dei nostri figli. Ma a volte, permettere loro questa esperienza è molto salutare; addirittura può diventare necessario, in alcuni casi. Non abbiamo alternativa, se vogliamo renderli felici.
Non impediamo che sbaglino. Non impediamo che soffrano.
Non sia mai che, per non averla mai provata, un giorno vengano a chiederci il conto perché li abbiamo protetti costantemente dalla sofferenza. Sarebbe il danno più grande che potremmo aver arrecato loro. Anche se lo avessimo fatto a fin di bene.

Articolo pubblicato sul numero di Aprile 2012 di Fogli

martedì 5 giugno 2012

Educare il cuore: non c’è altra strada


“Ai genitori fanno quasi paura, i figli; i genitori fanno tutto quello che gli chiedono loro”
Parole di Sara, 13 anni, studentessa di una scuola media di Modena. Le riporta Maurizio Tucci, giornalista, nel suo commento all’ultima indagine della Società italiana di Pediatria sulle “Abitudini e stili di vita degli adolescenti”.
Un’indagine fatta su un campione di 1300 ragazzi e ragazze tra i 12 e i 14 anni.

Ho sempre pensato che le parole di Sara potrebbero essere quelle di tanti suoi coetanei. Soprattutto quando guardo i miei, di coetanei. Genitori spesso timorosi di dire di no ai propri figli, per non perdere la loro amicizia e la loro fiducia. Genitori che, davanti al compito di educare i figli, sembra che abbiano alzato bandiera bianca. Con la conseguenza che tanti ragazzi si ritrovano senza quei punti di riferimento necessari per imparare a diventare grandi.
Educare i figli, oggi, è un compito arduo, non lo metto in dubbio. Qualche giorno fa parlavo con un amico di quanto sia difficile, per esempio, aiutare un adolescente a riconoscere la propria tonalità emotiva, a dare un nome alle emozioni che prova, a vivere una sessualità inserita in una più ampia cornice affettiva e relazionale che le dia senso pieno.
Un compito che diventa ancora più arduo se chi dovrebbe averlo per “missione” decide di tirare i remi in barca.
L’indagine che ho citato all’inizio è tanto chiara quanto impietosa: a proposito di sessualità, per esempio, i ragazzi non parlano quasi mai con i genitori, non li ritengono capaci di comprenderli e si rivolgono sempre più spesso ai forum su internet o ai coetanei per risolvere i propri dubbi. I genitori rimangono estranei alla sfera sessuale e affettiva dei figli e spesso, rassegnati davanti ai “tempi che cambiano”, non riescono ad andare oltre alla raccomandazione di portare con sé la pillola o il preservativo, perché “non si sa mai…”

Sembrerà un’affermazione banale, ma se oggi si parla tanto di emergenza educativa è perché, da molto, troppo tempo, la grande assente è proprio l’educazione.
E la soluzione, anche questo sembrerà banale, sta nel tornare a educare. A cominciare proprio dall’affettività, che forse è la dimensione che più di altre ha bisogno di essere ridefinita nel giusto quadro antropologico. L’uomo contemporaneo soffre di uno squilibrio esistenziale perché ha continuato ad alimentare la testa ma ha smesso di educare il cuore, lasciandolo in balìa di se stesso.
Il cuore è la sede degli affetti. E’ stato detto che dal cuore nascono i buoni propositi ma anche le peggiori intenzioni che un uomo possa formulare. Dal cuore dipende la qualità delle nostre relazioni. Da esso passa la nostra felicità. E oggi più che mai il cuore è la porta attraverso la quale possiamo arrivare alla testa dei giovani. Per questo se vogliamo affrontare la sfida educativa dobbiamo iniziare dalla formazione del cuore.
Non c'è altra strada, se vogliamo dare ai ragazzi gli strumenti con i quali possano rispondere alle domande di senso che si fanno proprio durante l’adolescenza. Chi sono io? Che ci faccio su questa terra? Che senso ha la mia esistenza? Perché vivo? Per chi vivo? Che cosa è la felicità e che cosa devo fare per essere veramente felice?
Dobbiamo tornare a educare il cuore perché oggi le risposte a queste domande mancano o, quando ci sono, sono spesso fonte di insoddisfazione e di malessere per i ragazzi stessi. Un malessere che si esprime soprattutto nella fragilità affettiva, nella banalizzazione della sessualità che viene vissuta come un gioco, nel preoccupante aumento dei comportamenti a rischio.
Riporto solo alcuni dati. Il 17% del campione intervistato dalla Società italiana di Pediatria ritiene che i 14 anni siano l’età giusta per avere rapporti sessuali completi. Tra gli adolescenti cresce a macchia d’olio il fenomeno del sexting, l’inserimento in rete di proprie immagini a sfondo sessuale. Qualche settimana fa ha fatto il giro del web la notizia di una bambina di 10 anni che si è fotografata nuda ed ha postato le proprie immagini su Facebook. Sempre più ragazzi sono affetti dall’ansia da prestazione sessuale: si sentono inadeguati a riprodurre con il proprio partner quello che vedono raffigurato dalle immagini che trovano con estrema facilità su internet.
Sono convinto che alla base di tanto malessere ci sia un cuore che non funziona bene. Molti dei problemi relazionali tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra amici o tra fidanzati, non nascono proprio dall’incapacità di gestire i moti dell’affettività? O non derivano forse dal dare troppo spazio alle emozioni a scapito della ragione, o dalla difficoltà di orientare correttamente le proprie passioni?
Il nostro agire si esprime sempre attraverso emozioni, sentimenti, passioni, sensazioni, motivazioni, manifestazioni tutte dell’affettività; quest’ultima è una sorta di anello di congiunzione fra la dimensione fisica dell’uomo e quella spirituale-razionale. Come possiamo trascurare allora questa “terza dimensione” così importante e fondamentale per la nostra felicità?
E soprattutto come possiamo farlo quando ci troviamo ad educare una generazione di ragazzi sempre più storditi dalla ricerca ossessiva di emozioni forti?

Sia chiaro: emozioni e sentimenti vanno sviluppati e valorizzati, non repressi. L’obiettivo dell’educazione è sempre quello di formare persone libere ed equilibrate. Persone capaci di usare la testa ma anche il cuore. Il compito educativo è un lavoro eminentemente positivo. Bisogna lavorare quindi in tal senso. Come?
Innanzitutto valorizzando proprio le istanze positive che l’odierna società affettiva ci presenta. Parliamo ai ragazzi della bellezza dei sentimenti e delle emozioni quando questi sono guidati dalla ragione. E facciamolo presentando loro esempi e modelli di persone che incarnano questo stile di vita: la storia, il cinema, l’attualità ci verranno in aiuto, senza dimenticare comunque che i modelli che i ragazzi guardano per primi siamo proprio noi.
Aiutiamo i ragazzi a conoscersi, ad ascoltarsi, a guardarsi dentro, educandoli sin da bambini alla lettura, alla contemplazione della bellezza, al silenzio, al rispetto per l’opinione degli altri. Fermiamoci a rispondere alle domande che ci fanno anche quando pensiamo che non abbiamo il tempo per farlo.
Aiutiamoli ad accettarsi per come sono fatti, amandoli incondizionatamente e non per i risultati che ottengono a scuola o in palestra o al circolo del tennis. Evitiamo di fare paragoni con i fratelli o con i loro compagni di classe. Ascoltiamoli, osserviamoli, comprendiamoli, invece di fare domande. A volte basterà semplicemente trasmettere l’idea che li capiamo, dicendo “Che forte! Ci sarai rimasto male. Sarai stato contento”.
Rispettiamone la crescita e non diamo loro l’impressione che li vogliamo più grandi o più piccoli di quello che sono.
Aiutiamoli a conquistarsi gli obiettivi e non diamo loro tutto subito. Che apprezzino lo sforzo per raggiungere una meta. Che sperimentino la noia, perché una vita in cui ogni desiderio è immediatamente soddisfatto finisce per spegnere in loro la capacità di sognare.
Incoraggiamoli a sviluppare le passioni, che sono intense come le emozioni e durature come i sentimenti. Coltivare passioni sane è la ricetta migliore per curare l’apatia che oggi affligge molti di essi. Non a caso c’è chi ha definito il nostro tempo l’epoca delle passioni tristi.
E per finire, ripartiamo da un’idea centrale: la famiglia è il primo luogo in cui affrontare con i figli il tema dell’affettività prima e della sessualità poi. Non si può delegare questo compito alla scuola o alla parrocchia o all’associazione culturale.
Ai genitori viene richiesta una preparazione ed un impegno maggiori, non c’è dubbio. Dovranno appassionarsi se vorranno essere all’altezza del loro compito. Passione benedetta, perché così facendo avranno già ottenuto una vittoria: quella dell’esempio, che agli occhi dei figli vale sempre più di mille discorsi.

Articolo pubblicato sul numero di Marzo 2012 di Fogli