mercoledì 27 aprile 2011

La famiglia, scuola di amore

Mi puoi descrivere qualcosa di quello che dicono o fanno i tuoi genitori che ti è utile nel rapporto con loro?, chiesi a una liceale tempo fa. Mi aspettavo una risposta prevedibile del tipo mi danno fiducia, oppure mi incoraggiano, o ancora mi danno consigli su come comportarmi.
E invece la sua risposta mi lasciò senza parole: Volersi bene! Due semplici parole che hanno confermato quello che ho sempre pensato e cioè che l’amore lo si impara vedendolo e provandolo sulla propria pelle.
E i primi da cui lo impariamo sono i nostri genitori. Se loro non ce lo mostrano – prima ancora che spiegarcelo – la strada della vita diventa subito in salita e difficilmente potrà cambiare pendenza.

Non è difficile osservare come i ragazzi, oggi, sono sempre più fragili dal punto di vista affettivo: hanno paura di amare e di impegnarsi in relazioni stabili; desiderano l’amicizia autentica ma allo stesso tempo non sono capaci di reggere la delusione di un tradimento; non credono nell’amore per sempre.
A questo si aggiunge la difficoltà a manifestare la propria sessualità in maniera adeguata all’età e soprattutto in modo consono con il proprio sesso biologico: un problema che riguarda soprattutto le ragazze, che negli ultimi anni si sono sempre più mascolinizzate.
Oggi abbonda il sesso, dovunque si parla di sesso. Ma dei sentimenti non si parla. Non si parla del cuore. E chi ne paga le spese sono i ragazzi, disorientati e incapaci di comprendere il legame tra sesso e amore.

Non è facile risalire alle cause, che dipendono dalla società in cui crescono, dai modelli che si offrono loro, dalla sessualizzazione precoce a cui sono sottoposti dai continui stimoli che ricevono sin da quando sono bambini. Almeno non è facile farlo in poche righe.

Su una cosa però vorrei soffermarmi: quanto incidono sulla maturazione affettiva e sessuale di un ragazzo i modelli rappresentati dai genitori? Quanto incide l’assenza o il cattivo esempio di uno dei due genitori? Quanto condiziona soprattutto l’assenza del padre?
Torniamo all’idea iniziale: noi impariamo ad amare se lo vediamo fare ai nostri genitori. A entrambi, papà e mamma; non a uno dei due con un’altra persona che non ci abbia generato. E’ dalla famiglia che ha origine la nostra capacità di voler bene.

E’ in famiglia che impariamo a essere voluti bene.
A casa veniamo amati per quello che siamo, non per quello che abbiamo o per quello che otteniamo. Papà e mamma ci vogliono bene perché è così e basta. Gratuitamente. Papà e mamma ci fanno sentire importanti perché ci amano incondizionatamente.

E’ in famiglia che impariamo a volerci bene.
Perché sin da piccoli siamo incoraggiati da papà e mamma che fanno il tifo per noi, credono in noi, ci fanno sentire sempre adeguati, nonostante i limiti nostri e loro. Perché ci aiutano a conoscerci e ad amarci per quello che siamo.

E’ in famiglia che impariamo a volere bene.
Perché solo se sapremo volerci bene saremo in grado di voler bene a un’altra persona.

Essere amati, amarsi, amare. Tre tappe successive che portano un ragazzo a saper gestire bene una relazione affettiva con un’altra persona. Tre tappe che hanno origine nei genitori.

Come aiutare allora i figli ad imparare ad amare? Volersi bene, ci ricorda la liceale di cui ho parlato all’inizio dell’articolo. Non bastano le intenzioni. E’ necessario che l’amore si veda, che i figli lo vedano vissuto in prima persona da papà e mamma. Che ne vedano i piccoli dettagli, la delicatezza, il pudore, la freschezza nonostante l’età che si fa strada; che capiscano – perché lo vedono in papà e mamma – il senso dell’intimità e del rispetto l’uno per l’altra.
Vogliatevi bene: sarà il regalo migliore che potrete fare ai vostri figli.


Articolo pubblicato sul numero di febbraio-marzo 2011 di Familiaria


giovedì 21 aprile 2011

Chi ha paura di Facebook? (seconda parte)

Continuiamo a parlare dei media digitali, che tanta influenza hanno nella vita dei nostri ragazzi. Il mese scorso si ricordava che per un educatore è molto importante l’atteggiamento da avere nei confronti di questi strumenti: deve avere il desiderio di conoscerli, di comprenderne le dinamiche, se possibile di usarli anche. Qualche mese fa un amico mi diceva: “I miei figli non useranno mai Facebook”. Alla mia domanda se lui lo avesse mai usato, mi rispose di no. Pensai istintivamente all’immagine del bambino che non vuole la minestra pur senza averla mai assaggiata…

Conoscere Facebook & dintorni significa conoscerne luci e ombre, potenzialità e limiti. E aiutare i ragazzi a rendersene conto anche loro.

Prendiamo ad esempio il problema della superficialità. Internet ha accorciato enormemente le distanze spazio-temporali; e questa è una grande conquista. E’ entusiasmante poter chattare con una persona di un altro Paese che si è conosciuta durante una vacanza. Oppure poter vedere attraverso una webcam che cosa succede dall’altra parte del mondo. O ancora, per i ragazzi, informarsi sui compiti per il giorno dopo, poter organizzare una festa o una partita di calcio con pochi click e a costo zero! Il prezzo da pagare è però una comunicazione decisamente più povera. Manca la voce, il suo timbro, la cadenza, i gesti che accompagnano le parole. Non c’è la manifestazione delle emozioni sul volto dell’interlocutore, semplicemente perché questo volto non posso vederlo… Una comunicazione povera che si sviluppa con estrema rapidità. E si sa che ciò che è rapido spesso spinge a rimanere in superficie. La riflessione ha bisogno di tempo, di lentezza. Caratteristica estranea alla logica di internet.

Cambiamo pagina. Tanti genitori infieriscono su Facebook perché non aiuta i figli a comprendere che cosa è la vera amicizia. Mio figlio ha 400 amici su Facebook, ma quanti di questi sono amici veri???
A questi genitori andrebbe chiesto che cosa fanno loro per aiutare i figli ad avere amici veri, reali, in carne ed ossa. Quanto tempo dedicano loro per far toccare con mano la bellezza di relazioni autentiche, profonde, gratuite, belle, vissute personalmente, a tu per tu, in presenza? Rapporti che possono essere iniziati o continuati anche attraverso il web, che diventa così uno strumento per approfondire amicizie vere.

Poi c’è il timore che i ragazzi incappino in contenuti pericolosi: violenza, pornografia, razzismo, droghe e via dicendo. Per evitare ciò sono di grande aiuto i filtri e i cosiddetti programmi di Parental control da installare sui computer; come pure è bene evitare che i figli tengano il computer in camera. Soluzioni utili ma che, di per sé, hanno un’efficacia molto ridotta. Meglio lavorare sulla motivazione, per portare poco alla volta i ragazzi a convincersi liberamente di non accedere a certi contenuti. Come? Rafforzando la comunicazione all’interno della famiglia, favorendo la formazione culturale degli adolescenti attraverso la passione per la lettura – dando essi per primi l’esempio! – , aiutandoli a comprendere l’uso corretto della libertà e la bellezza dell’amore umano. In questo modo i ragazzi stessi arrivano a capire quanto sia riduttivo e umiliante il modo in cui viene rappresentato spesso dai media.

In sostanza, chi educa deve puntare a sviluppare nei ragazzi un sano senso critico. E per farlo deve mettere in gioco tempo, pazienza, sforzo personale. Già, sforzo personale, perché bisogna per primi dare l’esempio ai propri figli. E’ molto più comodo vietare, proibire, comandare. E’ più comodo ma è molto meno efficace.

Continuiamo nell’elenco delle problematiche legate all’uso dei digital media ed arriviamo a quello che forse è uno degli inconvenienti più seri: l’invasività di Facebook. Volete sapere tutto su una persona? Cercatela su Facebook; il più delle volte raggiungerete il vostro obiettivo! Facebook vi permette di sapere come è fatta, qual è la sua età, la sua situazione sentimentale, il suo orientamento politico o religioso, quali sono le persone che frequenta su Facebook ma anche nella vita reale, quello che fa abitualmente (attraverso i suoi stati personali, le foto e i video caricati).

E il più delle volte le persone non si rendono conto che quello che scrivono o pubblicano di sé viene visto da centinaia o addirittura migliaia di persone. Ma c’è di più. Quanti di coloro che mettono le proprie foto su Facebook o che scrivono di essere tristi perché hanno litigato con un amico si esporrebbero allo stesso modo se fossero realmente davanti a tutti gli amici di Facebook contemporaneamente presenti?

A volte mi diverto nel vedere come un liceale che conosco per la prima volta a scuola mi dia del “lei” e pochi giorni dopo, su Facebook, passa senza alcuna remora al “tu”; ma ciò che mi diverte di più è il suo imbarazzo nel tornare al “lei” quando ci rivediamo a scuola. Questo succede perchè il monitor indebolisce e a volte annulla le barriere che proteggono la propria intimità. E Facebook è la massima rappresentazione di tale potere del web. Ma se l’intimità, che è quanto di più prezioso una persona possiede, diventa merce di tutti, che cosa potrà condividere di strettamente personale con coloro che ama di più? Che cosa potrà condividere con gli amici (quelli veri, reali, di carne)? Che cosa potrà donare di sè alla persona che diventerà la sua compagna di vita per sempre? Che cosa proteggerà come valore inestimabile che le permette di possedersi ed, in definitiva, di amarsi?

Ciò che è intimo, quindi, diventa a disposizione di tutti. Ma facendosi pubblico, paradossalmente esso svanisce, si perde e la persona si sente come violentata, anche se sul momento non se ne rende conto.

Perciò la migliore soluzione a questo problema va cercata sin dall’infanzia, aiutando i bambini a salvaguardare la propria intimità e a curare la virtù del pudore. Se un ragazzo arriva alle soglie dell’adolescenza con la piena consapevolezza di possedere dentro di sè un tesoro da proteggere a tutti i costi, gli verrà più facile farlo anche se usa Facebook o altri strumenti che mettono a repentaglio questo tesoro.

Come comportarci quindi per non perdere il contatto con il mondo dei nostri figli? Proviamo a trarre alcune conclusioni.

Innanzitutto ci vuole credibilità. I ragazzi ci guardano. Il problema educativo è degli adulti, ai quali è richiesta innanzitutto coerenza. Oggi mancano veri educatori, per questo si parla di crisi educativa. Gli adulti sono assenti e i ragazzi ne pagano le conseguenze. Dobbiamo lavorare quindi su di noi innanzitutto.

Poi è necessario il dialogo con la cultura post-moderna. Non serve fare crociate, cercare il muro contro muro, che oltre a non portare a nessuna conclusione costruttiva spesso non fa altro che esasperare le posizioni reciproche.

Infine, bisogna armarsi di molta pazienza. Pazienza per capire il mondo dei giovani; o almeno fare lo sforzo di capirlo. Pazienza per aggiornarsi; oggi educare è diventata una professione a tutti gli effetti; ed ogni professionista che si rispetti non può trascurare il proprio aggiornamento. Bisogna che ci si riappropri degli spazi umani, attraverso la lettura, i rapporti umani profondi, la dedicazione di tempo; perché si possa costituire quel territorio comune tra le diverse generazioni che è necessario per poter trasmettere a ogni persona giovane la convinzione – sono parole di Benedetto XVI - della “bontà della sua stessa vita e dei rapporti che la costituiscono, della validità del suo impegno per costruire con gli altri qualcosa in comune”.


Articolo pubblicato sul numero di aprile 2011 di Fogli (edizioni Ares)


venerdì 8 aprile 2011

Chi ha paura di Facebook? (prima parte)

“Internet è un vero dono per l’umanità (…) è gratificante vedere l’emergere di nuove reti digitali che cercano di promuovere la solidarietà umana, la pace e la giustizia, i diritti umani e il rispetto per la vita e il bene della creazione (…) Sentitevi impegnati a introdurre nella cultura di questo nuovo ambiente comunicativo e informativo i valori su cui poggia la vostra vita…”

Mi piace partire da queste parole di Benedetto XVI per rassicurare quei genitori terrorizzati dall’avanzata inarrestabile di un mostro che starebbe “divorando” il tempo, la mente, l’anima dei loro figli. Genitori in crisi perché non riescono a stare al passo con lo sviluppo tecnologico; genitori che vedono affievolirsi ogni speranza di salvare quel filo sottile che ancora permette loro di comunicare con i propri figli adolescenti, colpevoli di rimanere sempre più spesso chiusi in camera a passare il tempo su Facebook, mentre il mondo, quello vero, va avanti senza di loro…

Genitori spaventati. Genitori disorientati. E, va aggiunto, genitori spesso inconsapevoli.

Di cosa? Inconsapevoli che il vero problema probabilmente è dentro di loro. Sia chiaro, non è mia intenzione difendere a spada tratta Facebook, Messenger, siti web e media digitali, dei quali peraltro sono un grande utilizzatore. Ma siamo sicuri che il problema siano i media?

O meglio, siamo sicuri che il problema sia solo questo? Può darsi che sia necessario fare un passo indietro e interrogarsi in senso più ampio sul rapporto con i nostri ragazzi? E’ possibile che dobbiamo chiederci perché i media hanno guadagnato così tanto spazio nella loro vita da farci temere che c’è qualcosa che non va?

Mi capita spesso, quando parlo di questi temi con alcuni genitori, di cogliere due tipi di reazione. A volte un atteggiamento negativo: ai media andrebbe data la colpa di tutto, soprattutto dell’impoverimento relazionale e lessicale. Non sanno più parlare! Non sanno più scrivere! Sanno scrivere solo TVB, Xkè, xò, nnt e via dicendo…, si lamentano allarmate molte mamme (e pochi papà, ma di questo parleremo un’altra volta…).

Altre volte, l’atteggiamento dei genitori è diametralmente opposto: una sorta di rassegnazione, di resa “generazionale” che ha tra le conseguenze più pericolose quella di tagliarli fuori dalla sfida educativa lanciata dai loro figli. Un educatore, un genitore, oggi più che mai è chiamato innanzitutto a dare speranza e ottimismo; non può arrendersi o dare l’impressione di farlo.

Non è vero che i ragazzi si chiudono nel loro mondo “virtuale” perché non vogliono parlare con gli adulti. Anzi, in essi spesso si avverte un crescente bisogno di socializzazione verticale: i giovani cercano – perché ne hanno bisogno - adulti capaci di essere punti riferimento e li cercano innanzitutto nei genitori. Essi cercano disperatamente modelli autorevoli; ma l’autorità non si impone, semmai viene riconosciuta dagli educandi, quindi bisogna conquistarsela. Quando i giovani non trovano negli adulti dei veri punti di riferimento, succede che li cercano altrove e quindi anche nei media; essi allora non si sono emancipati dagli adulti, ma li hanno solo surrogati. I media non hanno sottratto spazi educativi agli adulti, sono questi ultimi che glieli hanno lasciati.

Tempo fa ho letto queste belle parole di Natalia Ginzburg: « Questa è forse l’unica reale possibilità che abbiamo di riuscir loro [ai figli] di qualche aiuto nella ricerca di una vocazione, avere una vocazione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con passione: perché l’amore alla vita genera amore alla vita ».

Perché l’amore alla vita genera amore alla vita. Parole sagge, che vanno vissute prima ancora che dette. Mostrare l’amore alla vita per mezzo della propria vita: un genitore non può abdicare a questo compito primario che è quello che i figli si aspettano. E mostrare che la vita è bella significa anche valorizzare ciò che di buono c’è nelle novità che i figli ci presentano. Anche Facebook, sì…

Perché per comunicare con le nuove generazioni e non aumentare a dismisura il gap che ci separa da esse bisogna conoscere il loro linguaggio, capirlo, valorizzarne le istanze positive; solo così, acquistando credibilità e fiducia nei confronti dei ragazzi, un educatore sarà in grado di aiutarli a cogliere anche le negatività insite nell’uso di questi strumenti. Bisogna convincersi che non è vero che essi siano strumenti negativi; dipende dall’uso che se ne fa, come avviene per tutto. Se li si usa bene sono utili; altrimenti diventano inutili o dannosi. Internet, per esempio, è una vetrina che presenta il mondo: se il mondo ha degli aspetti negativi, internet ci presenterà contenuti negativi; se il mondo ha degli aspetti positivi, internet ci presenterà contenuti positivi. Il problema non è internet ma il mondo. E lo stesso si può dire per Facebook, Youtube, Messenger, video-telefonini, ecc.

Va fatta un’altra considerazione. Non è possibile arrestare il tempo e con esso il progresso. Le nuove generazioni vengono identificate con il termine di nativi digitali, per rimarcare la forte influenza che le tecnologie digitali hanno su di esse. Si tratta di ragazzi nati nell’era dei digital media, a differenza dei loro genitori che, al limite, possono essere considerati immigrati digitali, come vengono chiamati dagli studiosi coloro che si sono avvicinati solo da adulti alle nuove tecnologie.

Ciò significa che in questi ragazzi è diverso il modo di comunicare, di ragionare, di percepire la realtà, di provare e rappresentare le proprie emozioni. Questo è un dato di fatto da cui partire per poterli aiutare. Non si può partire dalla considerazione che “oggi i giovani non sanno comunicare!”. A parte il fatto che non è vero, perché comunicano e anche tanto. Semmai lo fanno in maniera diversa rispetto agli adulti. E poi questo è il modo migliore cha ha un adulto per tagliare i ponti con loro.

All’inizio di questo articolo ho precisato che esso non è un’apologia di Facebook e dintorni. E’ ovvio che ci sono degli aspetti problematici relativi all’utilizzo dei digital media da parte dei figli. Ma ogni intervento educativo sull’uso dei media sarà efficace nella misura in cui noi per loro siamo persone credibili, amabili, autorevoli, autentiche, positive.

Premesso ciò possiamo adesso affrontare le difficoltà educative connesse all’uso di questi strumenti, con l’obiettivo di valorizzarne maggiormente gli aspetti positivi e minimizzarne invece le istanze negative.


Articolo pubblicato sul numero di marzo 2011 di Fogli (edizioni Ares)
La seconda parte verrà pubblicata nel numero di aprile