Tu, fino ad ora per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini.
E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi.
Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno uno dell'altro.
Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo...
(Il piccolo principe, A. De Saint-Exupery)
martedì 22 novembre 2011
Io che mi guardo dentro
lunedì 31 ottobre 2011
Il tempo, linguaggio dell'amore
sabato 22 ottobre 2011
Un minuto virtuale per una vita reale
martedì 18 ottobre 2011
La testa & il cuore
domenica 9 ottobre 2011
Come me nessuno mai
giovedì 29 settembre 2011
Interruzione volontaria di gravidanza: quando la coscienza dorme
Arrivo con un po’ di ritardo, quindi, ed entro nell’aula dove si sta svolgendo il seminario.
Il titolo del convegno è una sigla: IGV. Già, perché chiamarlo aborto sarebbe pesante e ti farebbe pensare a quello che stai facendo. Ma se invece di aborto si parla di interruzione volontaria di gravidanza, forse suona meglio. Se poi si usa una sigla anonima, IVG, è ancora più facile dimenticare che stai uccidendo un’altra persona.
Sta parlando la dott.ssa Mirella Parachini. Non la conosco; chi mi accompagna mi dice che si tratta del presidente dellaFederazione Internazionale degli operatori di Aborto e Contraccezione, nonché membro di Direzione dell’Associazione Luca Coscioni (la battaglia per l’eutanasia vi dice qualcosa?). Insomma, un bel biglietto da visita per un medico.
Sto per vomitare…
Almeno fino a quando la coscienza non si addormenta.
Articolo pubblicato su Cogitoetvolo
venerdì 16 settembre 2011
Caro Vasco, questa volta c’è chi dice no
martedì 6 settembre 2011
GMG 2011: giovani controcorrente
venerdì 22 luglio 2011
Femminilità. Inseguire i propri sogni si può, senza dimenticare ciò che si è.
Non è un film ma la realtà: lo sapevate che esiste un luogo dove è vietato chiamare i bambini usando il pronome “lei” o “lui”, ma solo quello neutro “hen”? Succede in un’isoletta della Svezia, dove il delirio dell’ideologia ha realizzato un asilo il cui progetto pedagogico, in ossequio alla lotta contro la discriminazione sessuale, è quello di crescere i bambini nella maniera più neutrale possibile.
“La società si aspetta che le bambine siano femminili, dolci e carine e che i bambini siano rudi, forti e impavidi. Egalia - è il nome dell’asilo - dà invece a tutti la meravigliosa opportunità di essere quel che vogliono”. Così si esprimeva una delle insegnanti dell’asilo svedese in un articolo apparso su un quotidiano nazionale qualche settimana fa.
Non è di identità di genere che parleremo in queste righe; tuttavia ho voluto cominciare con questo esempio perché sono convinto che se chiedessi ad un ragazzo di dirmi come immagina la sua ragazza, probabilmente tra le sue parole non mancherebbero aggettivi come femminile, dolce, carina… Proprio le parole che fanno paura all’insegnante svedese.
Femminile, dolce, carina: aggettivi che difficilmente smetteranno di accompagnare, nell’immaginario maschile, l’ideale della donna da amare. Non che molte donne non siano anche forti, coraggiose, determinate; ma non sono queste le qualità che, almeno inizialmente, un uomo cerca in una donna.
Eppure è innegabile che le ragazze di questo scorcio di millennio sono profondamente diverse dalle loro coetanee di qualche anno fa. Come e in che cosa è cambiato allora l’universo femminile odierno?
Una ragazza mi raccontava di aver trovato in soffitta il libro di educazione tecnica delle scuole medie di sua madre e di essere rimasta stupita per il fatto che era tutto fuorché l'educazione tecnica che aveva studiato lei. Si intitolava "Il mio domani"ed era praticamente un manuale della brava casalinga: come usare i nuovi elettrodomestici (aspirapolvere, lucidatrice), come stirare bene, come togliere le macchie, ecc...
Forse è questa una prima grande novità del nostro tempo: le aspirazioni delle ragazze sono cambiate profondamente; esse vogliono realizzarsi negli studi compiuti liberamente anche lontano da casa, hanno maggiori aspirazioni in ambito lavorativo, guardano prima al lavoro e poi alla famiglia.
Meglio o peggio, verrebbe da chiedersi? Probabilmente nessuno dei due. Semplicemente vivono in un mondo che è cambiato e che quindi richiede nuovi modelli di riferimento per realizzare la propria femminilità.
Una cosa però mi pare sia rimasta invariata in un’adolescente di oggi come di trent’anni fa: il forte desiderio di rendere grande la propria vita. Per questo le ragazze non smettono mai di sognare. Una capacità che, ne sono convinto, oggi è uno dei punti di forza dei giovani; forse perché risalta maggiormente, a confronto con la delusione tipica di molti adulti, che invece non sognano più…
I sogni, però, devono fondarsi sulla realtà concreta perché possano trasformarsi in progetti. Altrimenti rimangono solo sogni e quasi sempre, quando è così, deludono profondamente.
E qui tocchiamo un tasto dolente. Vero è che i ragazzi e le ragazze sanno fantasticare sulla propria vita; non è raro, però, che questa capacità di sognare si spenga dopo le prime delusioni. Oggi, infatti, diventa sempre più frequente trovare ragazze che già a vent’anni non credono più che la vita possa renderle felici. Come mai? Esse hanno più opportunità, maggiore libertà, più facilità negli spostamenti e nell’ottenere ciò che vogliono, eppure non basta a evitare la disillusione che è sempre più diffusa. Questa contraddizione mi sembra un’altra grande differenza tra le adolescenti di oggi e quelle di qualche anno fa.
Che dire poi della “intraprendenza” che molte ragazze mostrano nelle relazioni affettive? Chi può negare che fino a pochi anni fa l’iniziativa in questo campo era una prerogativa dell’uomo, mentre oggi sembra quasi che i ruoli si siano invertiti? Per di più si assiste in misura crescente ad una vera e propria mascolinizzazione delle ragazze: molte di esse sono diventate più maschili nel modo di vestire, nei modi fare e anche nel linguaggio. Mi chiedo se e quanto questa caratteristica, tipicamente attuale, possa condizionarle negativamente nella loro realizzazione personale di donne.
Leggevo qualche settimana fa che in Inghilterra una donna su tre prende psicofarmaci contro
Penso che sia difficile poter dimostrare questa tesi, ma sembra comunque certo che oggi le ragazze sono estremamente fragili ed esposte a rischi che fino a qualche anno fa erano molto ridotti, se non del tutto inesistenti.
Un esempio? La disillusione sull’amore, che agli occhi di molte di esse diventa sempre meno definitivo e sempre più precario; quante ragazze, dopo le prime delusioni, fanno una gran fatica a continuare a credere ad un amore eterno! “A che serve se tanto prima o poi finisce?”, sembrano dire con il loro atteggiamento disilluso e a volte cinico.
Personalmente penso che sia difficile spegnere definitivamente il desiderio dell’amore che dura per sempre, innato in ogni persona. Ma la tentazione di non crederci più è costantemente dietro l’angolo.
Ecco allora come appaiono molte ragazze oggi: fragili, disorientate e confuse. L’anticipo del periodo in cui avvengono le prime mestruazioni (cinquant’anni fa era intorno ai 13-14 anni, oggi siamo scesi a 10-11 anni) non corrisponde ad una maturazione contestuale della psiche e del carattere. Le ragazze si sentono presto grandi ma in realtà sono più piccole di quanto sembrano. Ed in questo non vengono neanche supportate dai loro coetanei maschi, che sono decisamente più immaturi di esse e che fanno una grande fatica ad assumersi le proprie responsabilità.
Tempo fa una diciassettenne scriveva su un forum il motivo per cui fosse convinta che non c’era nulla di male nell’avere una “storia” anche con un quarantenne. Scriveva: oggi la società è senza modelli e senza valori, quindi perché non innamorarsi di un uomo di 40 anni che è molto maturo rispetto ad un ragazzo di 17 anni che si fa manovrare da una falsa società? Parole che si commentano da sole…
Mi rendo conto che non è facile fermarsi a queste poche considerazioni nel trattare un tema che meriterebbe ben altro approfondimento. E’ un limite che diventa ancora più evidente nel momento in cui si prova a trarre delle conclusioni.
Che dire? E’ fuori discussione che le adolescenti del terzo millennio sembrano avere maggiori potenzialità rispetto alle coetanee di qualche decennio fa. Nessuno lo nega.
Eppure per essere pienamente donna, per realizzarsi, non basta avere più chances. Non è questo l’essenziale.
Agli educatori, ma soprattutto alle educatrici – penso soprattutto alle mamme – tocca il grande compito di aiutare ogni ragazza a custodire come un gran tesoro la propria femminilità.
Difficilmente una donna potrà fare ad un uomo un regalo migliore di questo.
Articolo pubblicato sul numero di Giugno/Luglio 2011 di Familiaria
venerdì 24 giugno 2011
Il bene di chi?
Nelle isole Salomone, quando la gente di quelle tribù vuole deforestare un pezzo di giungla, per ricavarne terra da coltivare, quella gente non abbatte gli alberi. Si avvicina all'albero e lo insulta con ostinazione; poi lo maledice e, piano piano, l'albero alla fine si secca. Poi cade a terra da solo.
Sono parole tratte da un film che ho avuto la fortuna di vedere qualche mese fa. Da tempo un amico insisteva perché lo vedessi, ma un po’ per la mancanza di tempo, un po’ perché il titolo non mi attraeva più di tanto, ne avevo sempre rinviato la visione.
E invece ho avuto l’ennesima conferma che non bisogna mai fidarsi dei pregiudizi, perché l’ho visto e devo riconoscere che ne è valsa la pena: sembra fatto apposta per un educatore. Dovrebbero vederlo in particolare quei papà che mostrano insofferenza per un figlio che non è all'altezza delle loro aspettative, un figlio che, a loro dire, non fa bene qualcosa in cui “dovrebbe” invece essere il migliore.
Sempre che sia un bene per il figlio essere il migliore.
Sì, perché un genitore, quando fa di tutto, giustamente, per ottenere il bene di suo figlio, dovrebbe innanzitutto chiedersi: sto cercando il bene di chi? Il bene di mio figlio? Oppure quello che io ho deciso per lui?
La risposta sembrerebbe scontata, ma non è così. O, almeno, non lo è sempre.
Quanti papà proiettano nei figli le aspettative di una vita – la propria – della quale non si è pienamente soddisfatti?
O quanti pur non arrivando a questo, considerano lecito - quasi doveroso - pianificare il futuro dei propri figli? Altrimenti – pensano giustamente – non arriveranno mai ad essere qualcuno; non arriveranno ad essere felici.
Sembra di sentirle, queste parole, di fronte ad un insuccesso scolastico oppure sportivo del figlio: “Lui deve riuscirci, è per il suo bene! Altrimenti non sarà mai nessuno nella vita!”
A un papà o a una mamma che pensassero così bisognerebbe porre alcune domande.
Chi ha deciso che tuo figlio deve essere il più bravo della classe?
Chi ha deciso che deve diventare un campioncino di tennis? O che deve incantare compagni e parenti suonando divinamente il pianoforte?
Chi ha deciso che deve essere tanto bravo quanto lo è stato il fratello maggiore?
E se non ci riesce, ti sei chiesto il perché? Hai pensato che forse i suoi talenti sono altri, oppure che c'è qualcosa che lo blocca e che non riesce a comunicarti perché le tue pressanti richieste gli mettono paura e gli impediscono di parlarti?
E' bene che i genitori si facciano queste domande. Sì, perché una reazione sbagliata nei confronti di un figlio che non vuole o non riesce ad essere il migliore nell’ambito che essi hanno deciso per lui, potrebbe segnarlo per tutta la vita.
Potrebbe portarsi a lungo le ferite di non essere stato all'altezza di quello che i suoi genitori sognavano. E queste ferite sono difficili da rimarginare, soprattutto se gli sono state inferte, anche se involontariamente, da coloro le cui parole e i cui atteggiamenti hanno un grande peso - nel bene e nel male - nel suo viaggio verso la maturità.
Qualche tempo fa un ragazzo mi diceva che non avrebbe mai studiato, per non dare nessuna soddisfazione ai genitori: si sentiva sotto pressione da anni, e la sua reazione più naturale era quella di rifiutare per principio l’idea di prendere un buon voto a scuola. Reazione che lui stesso, razionalmente, giudicava illogica ma che emotivamente non riusciva a gestire in maniera diversa.
I ragazzi, soprattutto se adolescenti, hanno una spiccata sensibilità nel cogliere la coerenza e la sincerità dell’atteggiamento degli adulti che hanno di fronte.
Per questo non dovrebbe mai mancare, nei genitori, questa domanda: il bene di chi sto cercando? I ragazzi lo capiscono facilmente e reagiscono di conseguenza.
Per la cronaca, il film citato all’inizio è Stelle sulla terra, di Aamir Khan. E di stelle sulla terra se ne accendono ogni giorno a decine, centinaia, migliaia.
Tutte le volte che nasce un essere umano si accende una stella sulla terra. Una stella il cui compito è quello di splendere e dare luce a quella parte di firmamento dove le è toccato di stare; fosse anche l'angolo più nascosto del cielo, esso rimarrebbe al buio se mancasse la luce di quella stella... Non può permettersi di spegnersi.
Eppure di stelle spente anzitempo, oggi, ce ne sono tante, troppe. E il più delle volte esse non si sono spente da sole.
A un educatore - a un genitore, innanzitutto - spetta il compito di mantenere accesa ogni stella che gli viene affidata. E se per caso questa dovesse spegnersi inaspettatamente, non ne cerchi subito la causa nella scarsa qualità della stella o nella società, nel mondo, nella crisi morale e via dicendo. Potrebbe essere troppo comodo per nascondere un’altra verità.
Che si ricordi di quello che succede agli alberi delle isole Salomone...
Articolo pubblicato sul numero di Giugno 2011 di Fogli
venerdì 27 maggio 2011
Cogitoetvolo intervista Beppe Severgnini a Palermo
Sono le 15,30 di martedì 24 maggio. Si parla di giornalismo. O meglio, di giornalisti alle prese con l’informazione nell’era del web. Il titolo del convegno dice tutto: I (già) vecchi media. Carta stampata, TV, web. Siamo a Palermo, presso l’Albergo delle Povere, a pochi passi dalla centralissima piazza Indipendenza.
Tra gli invitati ci sono diversi volti noti del giornalismo: Giuseppe Di Piazza, direttore di Sette; Corradino Mineo, direttore di Rai News 24; Marco Bardazzi, caporedattore centrale de La Stampa. Nomi prestigiosi, ma la mia attesa era soprattutto per lui, Beppe Severgnini, scrittore e giornalista del Corriere della Sera.
Il convegno è lungo, dura quasi quattro ore ininterrotte. All’inizio viene proiettato un filmato che mostra come la classe dei giornalisti abbia una pessima reputazione agli occhi degli italiani: mediocri, superficiali, asserviti al potere… L’audio del filmato è pessimo e, per fortuna, dura poco. Al termine della proiezione iniziano a parlare i giornalisti invitati. Quando prende la parola Severgnini, la prima cosa che fa è chiederci se in sala riusciamo a sentire. Dettaglio di classe…
Il convegno procede, senza pause ma in maniera gradevole; si segue con piacere, soprattutto quando a parlare è il giornalista del Corriere, ironico, colto e chiaro, come sempre.
Si parla di tante cose: del fatto che in Italia si legge poco, della crisi della carta stampata - sarà anche colpa del web? - , dell’età media sempre più giurassica dei giornalisti italiani e della assenza di nuove leve, anche perché le assunzioni nel settore sono bloccate da anni…
Torna a parlare Severgnini, che loda la bravura dei giovani giornalisti; è un peccato che i giornali non riescano ad offrire loro neanche uno stage.
La tavola rotonda si avvia alla conclusione, affidata, come era prevedibile proprio a Severgnini.
La missione del giornalista ? Unire i puntini: la gente - dice - non ha tempo per cercare le informazioni da sola, non riesce a districarsi tra le mille notizie della rete: qui entra il giornalista, che deve unire i puntini, appunto, come si fa con i giochi delle riviste enigmistiche per fare comparire una figura ben precisa. In questo modo il giornalista fa un vero servizio alla società.
Poi parla del mirmicoleone, facendoci ridere, forse per ingannare la stanchezza e la fame, data l'ora.
Il mirmicoleone – dice – è una figura leggendaria, per metà leone e per metà formica; esso nasce da un padre leone e una madre formica, ma non potendosi nutrire né come il padre, carnivoro, né come la madre, erbivora, rimane indeciso e muore pochi giorni dopo la nascita. Nel mondo del giornale ci sono tanti mirmicoleoni, giornalisti indecisi che non sanno cosa fare. E invece l'importante é fare le cose bene, non come il mirmicoleone che non sa che cosa fare e muore.
Applauso e conclusione della conferenza.
E qui arriva il bello. Incoraggiato dalla presenza, accanto a me, di Guido Vassallo, decido di andare subito all’arrembaggio e di intervistarlo. Ci avviciniamo assieme.
Salve, dott. Severgnini, complimenti per le belle cose che ha detto. Ci saluta sorridente. Incalziamo: siamo di Cogitoetvolo, vorremmo lasciarle alcuni segnalibri per suo figlio e vorremmo farle alcune domande. Ci dedica qualche minuto?
Severgnini accetta i segnalibri e, spiazzato dalla nostra intraprendenza, ci dice di sì, un po’ a denti stretti – è molto stanco e, come è logico, tutte le attenzioni sono per lui – ma a patto che le domande siano solo due.
Lo ringraziamo e gli ricordiamo che lui, tre anni fa, citò Cogitoetvolo sul suo blog Italians, dicendo, con riferimento ai giovani di Cogitoetvolo, che "gli piacevano gli studenti svegli (quelli colti dicono proattivi)".
Iniziamo a intervistarlo. Guido pone le domande, io registro.
Spesso si ha l’impressione che nel giornalismo faccia notizia la cattiva notizia, oppure il fatto di cronaca un po’ morboso e si punta molto su queste cose. E’ un ripiego perché non c’è altro da dire oppure è questa la prima finalità del giornalismo?
Allora, mettiamola così. Se in un condominio ci sono venti famiglie e in diciannove va tutto bene, i genitori lavorano, i figli studiano, vanno in vacanza d’estate, ecc. Nella ventesima famiglia hanno l’abitudine, quando litigano, di buttare la lavatrice dal balcone e ogni tanto si picchiano sulle scale. Secondo voi nel condominio di chi si parla?
Traduzione: c’è una sorta di inevitabilità che è l’eccezione e spesso è un’eccezione negativa e attira l’attenzione. Questo è fisiologico; quello che è patologico è costruire su questo una sorta di ossessione sociale e quindi trasformare un delitto in un serial televisivo, con i plastici nei talk-show; questo è secondo me sbagliato. Ma che un caso particolare, anche di cronaca nera attiri l’attenzione della gente è normale.
Se uno guarda l’Iliade, c’è di mezzo un rapimento, che è un fatto di cronaca nera! Quindi non bisogna neanche esagerare, anche se è vero però che oggi stiamo eccedendo e che per molti media tutto diventa morboso. Il crimine come eccesso ed esempio della debolezza della natura umana va bene, come nelle tragedie greche: Sofocle o Euripide di che cosa parlano? Ma il crimine come ossessione morbosa è un’altra cosa.
C’è la consapevolezza nel giornalista che quello che lui scrive, sia la notizia che la sua opinione, ha un’influenza nel sentire comune. L’impressione è che a volte nel giornalismo c’è un po’ di pessimismo, si instilla un po’ di pessimismo nella società piuttosto che spingere all’ottimismo.
La tua è un’opinione più che una domanda. Io sono abbastanza d’accordo. E’ vero che alcuni giornalisti hanno questa capacità di condizionare l’opinione pubblica, però non sono moltissimi. Semmai questo avviene nella scelta delle notizie, questo sì.
Questo genera molto pessimismo nei giovani. La cosa che cerchiamo di fare con Cogitoetvolo, che ci siamo posti come obiettivo, è quella di presentare notizie positive, che fanno meno rumore, probabilmente, rispetto a quelle di cronaca nera. Però a volte abbiamo l’impressione che questo non basti, perchè i ragazzi spesso sono disillusi. Guardi il telegiornale e solo dopo un quarto d’ora, forse, se va bene, c’è una notizia positiva. Vedi, l’idea che le notizie positive siano di per sé interessanti è un po’ ingenua. La notizia positiva richiede un’abilità tecnica di esposizione, di confezionamento, di seduzione, superiore. La notizia cattiva aiuta il giornalista pigro, perché di per sé attira. La buona notizia richiede un lavoro maggiore da parte dei giornalisti, una bravura maggiore. Occorre commuovere, appassionare, ispirare, divertire, non è facile! Qualcuno pensa che in qualche modo il buon cuore sia di per sé il passaporto per l’attenzione altrui; non è vero, è quasi l’opposto, il buon cuore è spesso un ostacolo, deve essere filtrato attraverso il mestiere, l’esperienza, l’intelligenza, l’ironia, altrimenti è un guaio. Il romanziere pessimo per definizione è la brava persona che ha il cuore pieno di buoni sentimenti: quasi sempre scrive un romanzo pessimo. Il filtraggio tra i sentimenti che riempiono il cuore e la pagina scritta è quella che si chiama capacità di scrivere. Lo scrittore si vede lì. Quindi io invito a respingere l’idea che poiché sono buono in qualche modo mi merito l’attenzione. Se fosse così il mondo sarebbe migliore, probabilmente; però non funziona così e uno deve accettarlo.
Grazie. Un pronostico per domenica sera? Chi vince la finale di Coppa Italia? Sa, siamo a Palermo…
Vince l’Inter 3 a 1.
Ridiamo.
Guido – interista, ma dal cuore rosanero – forse ride di più. Anch’io rido, ma in cuor mio mi auguro che il pronostico di Severgnini sia l’unica cosa infelice pronunciata in questo bel pomeriggio palermitano.
Articolo pubblicato su www.cogitoetvolo.it
venerdì 20 maggio 2011
Quale sarà il tuo verso?
Lettere ad un teenager/5
“I ragazzi, oggi, non si fanno tante domande sul senso della vita, sulla loro identità, sul loro futuro. Vanno avanti a forza di emozioni.
Quelle domande se le pongono solo se incontrano lungo la loro strada
Così mi diceva un amico con il quale parlavo di come riaccendere il cuore, spesso stanco e svogliato, di tanti ragazzi.
Faccio fatica a credere che un ragazzo, una ragazza, non si facciano mai queste domande a meno che non vadano a sbattere violentemente contro il muro della sofferenza. Non ci credo. Semmai le domande, come la voglia di rendere grande la propria vita, sono come atrofizzate dal vento freddo che viene dal mondo… quasi sempre dal mondo degli adulti.
Come credere in me stesso? Come fare per essere contento di quello che sono e non cercare di apparire per quello che vorrei? Qual è la mia identità? Chi sono? Chi voglio diventare? Per chi vivo?
Sono solo alcune delle domande che, prima o poi, tutti ci facciamo. Che, prima o poi, tu ti fai. Forse sarebbe più comodo ignorarle, sarebbe più comodo far finta di niente. Ma non è nella natura umana, recitava qualche anno fa il protagonista di una famosa serie TV, nel corso della prima puntata.
No, sono domande che non si possono ignorare. Esigono una risposta, dalla quale dipende la tua felicità.
Da dove partire? Riconosco che non è facile; prova a partire dalla conclusione. Dalla certezza – perché è così – che tu sei unico al mondo. Dalla convinzione che, come te, non c’è e non ci sarà mai nessun altro che potrà scrivere la storia che tu solo sei venuto a raccontare. Una storia che, senza di te, lascerà per sempre un vuoto – non importa se piccolo o grande – che non potrà mai essere colmato.
Come te non c’è nessuno mai. Per arrivare a questa conclusione, devi imparare a conoscerti; non basta farlo, devi volerlo fare. Puntare dritto al fondo del tuo cuore, allontanarti dalla superficie, dove è più facile stare; non costa sforzo rimanere in superficie ma così non scoprirai mai chi sei veramente. Dopo aver scoperto chi sei, potrai fare il secondo passo: volerti bene per quello che sei. E allora, solo allora, diventerai capace di volere bene a un’altra persona.
Ma di questo parleremo un’altra volta.
Continua a seguirmi nelle prossime lettere: cercherò di accompagnarti in quella che, usando le parole di un famosissimo film, per te potrebbe essere la scoperta più bella della tua vita: che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso.
Quale sarà il tuo verso?
mercoledì 27 aprile 2011
La famiglia, scuola di amore
Mi puoi descrivere qualcosa di quello che dicono o fanno i tuoi genitori che ti è utile nel rapporto con loro?, chiesi a una liceale tempo fa. Mi aspettavo una risposta prevedibile del tipo mi danno fiducia, oppure mi incoraggiano, o ancora mi danno consigli su come comportarmi.
E invece la sua risposta mi lasciò senza parole: Volersi bene! Due semplici parole che hanno confermato quello che ho sempre pensato e cioè che l’amore lo si impara vedendolo e provandolo sulla propria pelle.
E i primi da cui lo impariamo sono i nostri genitori. Se loro non ce lo mostrano – prima ancora che spiegarcelo – la strada della vita diventa subito in salita e difficilmente potrà cambiare pendenza.
Non è difficile osservare come i ragazzi, oggi, sono sempre più fragili dal punto di vista affettivo: hanno paura di amare e di impegnarsi in relazioni stabili; desiderano l’amicizia autentica ma allo stesso tempo non sono capaci di reggere la delusione di un tradimento; non credono nell’amore per sempre.
A questo si aggiunge la difficoltà a manifestare la propria sessualità in maniera adeguata all’età e soprattutto in modo consono con il proprio sesso biologico: un problema che riguarda soprattutto le ragazze, che negli ultimi anni si sono sempre più mascolinizzate.
Oggi abbonda il sesso, dovunque si parla di sesso. Ma dei sentimenti non si parla. Non si parla del cuore. E chi ne paga le spese sono i ragazzi, disorientati e incapaci di comprendere il legame tra sesso e amore.
Non è facile risalire alle cause, che dipendono dalla società in cui crescono, dai modelli che si offrono loro, dalla sessualizzazione precoce a cui sono sottoposti dai continui stimoli che ricevono sin da quando sono bambini. Almeno non è facile farlo in poche righe.
Su una cosa però vorrei soffermarmi: quanto incidono sulla maturazione affettiva e sessuale di un ragazzo i modelli rappresentati dai genitori? Quanto incide l’assenza o il cattivo esempio di uno dei due genitori? Quanto condiziona soprattutto l’assenza del padre?
Torniamo all’idea iniziale: noi impariamo ad amare se lo vediamo fare ai nostri genitori. A entrambi, papà e mamma; non a uno dei due con un’altra persona che non ci abbia generato. E’ dalla famiglia che ha origine la nostra capacità di voler bene.
E’ in famiglia che impariamo a essere voluti bene.
A casa veniamo amati per quello che siamo, non per quello che abbiamo o per quello che otteniamo. Papà e mamma ci vogliono bene perché è così e basta. Gratuitamente. Papà e mamma ci fanno sentire importanti perché ci amano incondizionatamente.
E’ in famiglia che impariamo a volerci bene.
Perché sin da piccoli siamo incoraggiati da papà e mamma che fanno il tifo per noi, credono in noi, ci fanno sentire sempre adeguati, nonostante i limiti nostri e loro. Perché ci aiutano a conoscerci e ad amarci per quello che siamo.
E’ in famiglia che impariamo a volere bene.
Perché solo se sapremo volerci bene saremo in grado di voler bene a un’altra persona.
Essere amati, amarsi, amare. Tre tappe successive che portano un ragazzo a saper gestire bene una relazione affettiva con un’altra persona. Tre tappe che hanno origine nei genitori.
Come aiutare allora i figli ad imparare ad amare? Volersi bene, ci ricorda la liceale di cui ho parlato all’inizio dell’articolo. Non bastano le intenzioni. E’ necessario che l’amore si veda, che i figli lo vedano vissuto in prima persona da papà e mamma. Che ne vedano i piccoli dettagli, la delicatezza, il pudore, la freschezza nonostante l’età che si fa strada; che capiscano – perché lo vedono in papà e mamma – il senso dell’intimità e del rispetto l’uno per l’altra.
Vogliatevi bene: sarà il regalo migliore che potrete fare ai vostri figli.
Articolo pubblicato sul numero di febbraio-marzo 2011 di Familiaria
giovedì 21 aprile 2011
Chi ha paura di Facebook? (seconda parte)
Continuiamo a parlare dei media digitali, che tanta influenza hanno nella vita dei nostri ragazzi. Il mese scorso si ricordava che per un educatore è molto importante l’atteggiamento da avere nei confronti di questi strumenti: deve avere il desiderio di conoscerli, di comprenderne le dinamiche, se possibile di usarli anche. Qualche mese fa un amico mi diceva: “I miei figli non useranno
Conoscere Facebook & dintorni significa conoscerne luci e ombre, potenzialità e limiti. E aiutare i ragazzi a rendersene conto anche loro.
Prendiamo ad esempio il problema della superficialità. Internet ha accorciato enormemente le distanze spazio-temporali; e questa è una grande conquista. E’ entusiasmante poter chattare con una persona di un altro Paese che si è conosciuta durante una vacanza. Oppure poter vedere attraverso una webcam che cosa succede dall’altra parte del mondo. O ancora, per i ragazzi, informarsi sui compiti per il giorno dopo, poter organizzare una festa o una partita di calcio con pochi click e a costo zero! Il prezzo da pagare è però una comunicazione decisamente più povera. Manca la voce, il suo timbro, la cadenza, i gesti che accompagnano le parole. Non c’è la manifestazione delle emozioni sul volto dell’interlocutore, semplicemente perché questo volto non posso vederlo… Una comunicazione povera che si sviluppa con estrema rapidità. E si sa che ciò che è rapido spesso spinge a rimanere in superficie. La riflessione ha bisogno di tempo, di lentezza. Caratteristica estranea alla logica di internet.
Cambiamo pagina. Tanti genitori infieriscono su Facebook perché non aiuta i figli a comprendere che cosa è la vera amicizia. Mio figlio ha 400 amici su Facebook, ma quanti di questi sono amici veri???
A questi genitori andrebbe chiesto che cosa fanno loro per aiutare i figli ad avere amici veri, reali, in carne ed ossa. Quanto tempo dedicano loro per far toccare con mano la bellezza di relazioni autentiche, profonde, gratuite, belle, vissute personalmente, a tu per tu, in presenza? Rapporti che possono essere iniziati o continuati anche attraverso il web, che diventa così uno strumento per approfondire amicizie vere.
Poi c’è il timore che i ragazzi incappino in contenuti pericolosi: violenza, pornografia, razzismo, droghe e via dicendo. Per evitare ciò sono di grande aiuto i filtri e i cosiddetti programmi di Parental control da installare sui computer; come pure è bene evitare che i figli tengano il computer in camera. Soluzioni utili ma che, di per sé, hanno un’efficacia molto ridotta. Meglio lavorare sulla motivazione, per portare poco alla volta i ragazzi a convincersi liberamente di non accedere a certi contenuti. Come? Rafforzando la comunicazione all’interno della famiglia, favorendo la formazione culturale degli adolescenti attraverso la passione per la lettura – dando essi per primi l’esempio! – , aiutandoli a comprendere l’uso corretto della libertà e la bellezza dell’amore umano. In questo modo i ragazzi stessi arrivano a capire quanto sia riduttivo e umiliante il modo in cui viene rappresentato spesso dai media.
In sostanza, chi educa deve puntare a sviluppare nei ragazzi un sano senso critico. E per farlo deve mettere in gioco tempo, pazienza, sforzo personale. Già, sforzo personale, perché bisogna per primi dare l’esempio ai propri figli. E’ molto più comodo vietare, proibire, comandare. E’ più comodo ma è molto meno efficace.
Continuiamo nell’elenco delle problematiche legate all’uso dei digital media ed arriviamo a quello che forse è uno degli inconvenienti più seri: l’invasività di Facebook. Volete sapere tutto su una persona? Cercatela su Facebook; il più delle volte raggiungerete il vostro obiettivo! Facebook vi permette di sapere come è fatta, qual è la sua età, la sua situazione sentimentale, il suo orientamento politico o religioso, quali sono le persone che frequenta su Facebook ma anche nella vita reale, quello che fa abitualmente (attraverso i suoi stati personali, le foto e i video caricati).
E il più delle volte le persone non si rendono conto che quello che scrivono o pubblicano di sé viene visto da centinaia o addirittura migliaia di persone. Ma c’è di più. Quanti di coloro che mettono le proprie foto su Facebook o che scrivono di essere tristi perché hanno litigato con un amico si esporrebbero allo stesso modo se fossero realmente davanti a tutti gli amici di Facebook contemporaneamente presenti?
A volte mi diverto nel vedere come un liceale che conosco per la prima volta a scuola mi dia del “lei” e pochi giorni dopo, su Facebook, passa senza alcuna remora al “tu”; ma ciò che mi diverte di più è il suo imbarazzo nel tornare al “lei” quando ci rivediamo a scuola. Questo succede perchè il monitor indebolisce e a volte annulla le barriere che proteggono la propria intimità. E Facebook è la massima rappresentazione di tale potere del web. Ma se l’intimità, che è quanto di più prezioso una persona possiede, diventa merce di tutti, che cosa potrà condividere di strettamente personale con coloro che ama di più? Che cosa potrà condividere con gli amici (quelli veri, reali, di carne)? Che cosa potrà donare di sè alla persona che diventerà la sua compagna di vita per sempre? Che cosa proteggerà come valore inestimabile che le permette di possedersi ed, in definitiva, di amarsi?
Ciò che è intimo, quindi, diventa a disposizione di tutti. Ma facendosi pubblico, paradossalmente esso svanisce, si perde e la persona si sente come violentata, anche se sul momento non se ne rende conto.
Perciò la migliore soluzione a questo problema va cercata sin dall’infanzia, aiutando i bambini a salvaguardare la propria intimità e a curare la virtù del pudore. Se un ragazzo arriva alle soglie dell’adolescenza con la piena consapevolezza di possedere dentro di sè un tesoro da proteggere a tutti i costi, gli verrà più facile farlo anche se usa Facebook o altri strumenti che mettono a repentaglio questo tesoro.
Come comportarci quindi per non perdere il contatto con il mondo dei nostri figli? Proviamo a trarre alcune conclusioni.
Innanzitutto ci vuole credibilità. I ragazzi ci guardano. Il problema educativo è degli adulti, ai quali è richiesta innanzitutto coerenza. Oggi mancano veri educatori, per questo si parla di crisi educativa. Gli adulti sono assenti e i ragazzi ne pagano le conseguenze. Dobbiamo lavorare quindi su di noi innanzitutto.
Poi è necessario il dialogo con la cultura post-moderna. Non serve fare crociate, cercare il muro contro muro, che oltre a non portare a nessuna conclusione costruttiva spesso non fa altro che esasperare le posizioni reciproche.
Infine, bisogna armarsi di molta pazienza. Pazienza per capire il mondo dei giovani; o almeno fare lo sforzo di capirlo. Pazienza per aggiornarsi; oggi educare è diventata una professione a tutti gli effetti; ed ogni professionista che si rispetti non può trascurare il proprio aggiornamento. Bisogna che ci si riappropri degli spazi umani, attraverso la lettura, i rapporti umani profondi, la dedicazione di tempo; perché si possa costituire quel territorio comune tra le diverse generazioni che è necessario per poter trasmettere a ogni persona giovane la convinzione – sono parole di Benedetto XVI - della “bontà della sua stessa vita e dei rapporti che la costituiscono, della validità del suo impegno per costruire con gli altri qualcosa in comune”.
Articolo pubblicato sul numero di aprile 2011 di Fogli (edizioni Ares)