martedì 22 novembre 2011

Io che mi guardo dentro


Tutti noi adolescenti viviamo almeno un periodo di crisi che per la maggior parte si manifesta con la solitudine: siamo convinti che noi al mondo non serviamo a nulla per via di qualche delusione soprattutto amorosa. Perciò ci rinchiudiamo in noi stessi in attesa che qualcuno si accorga di noi e ci faccia capire che possiamo dare al mondo più di quanto non immaginiamo.
Così scriveva, tempo fa, una ragazza su un forum, commentando un articolo sull’adolescenza.
Siamo convinti che noi non serviamo a nulla. Forse un adolescente non scriverebbe una cosa del genere se solo si conoscesse meglio. Già, perché una delle cose più belle ma anche più difficili per un ragazzo è proprio il conoscersi. Una conoscenza che a volte mette paura, la paura di non accettarsi per quello che si è.
Eppure, se non si vuole restare per tutta la vita ad un livello superficiale, è necessario conoscersi. O meglio, è necessario volerlo fare, fino in fondo, fino a giungere nel luogo dove nasce la parola “io”. E qual è questo luogo?
Per provare a rispondere prendiamo in prestito le parole di Susanna Tamaro: E quando poi davanti a te si apriranno tante strade e non saprai quale prendere, non imboccarne una a caso, ma siediti e aspetta. Respira con la profondità fiduciosa con cui hai respirato il giorno in cui sei venuta al mondo, senza farti distrarre da nulla, aspetta e aspetta ancora. Stai ferma, in silenzio, e ascolta il tuo cuore. Quando poi ti parla, alzati e va’ dove lui ti porta.
La scrittrice triestina individua nel cuore il luogo da cui nasce la voce che ognuno di noi dovrebbe ascoltare prima di prendere una decisione. E’ dal cuore che scaturisce l’amore, è il cuore il luogo in cui si fanno le scelte; esso è la sede degli affetti e della volontà. Dal cuore nasce l’intimità.
Ma che cosa è l’intimità? Che vuol dire intimo? Forse non tutti sanno che il vocabolo "intimo" è il superlativo di "interiore"; vuol dire, quindi, la parte più interna. Intimo è allora ciò che si riferisce alla parte più interiore di me stesso.
Possiamo dire che l’intimità è quanto di più prezioso possediamo, è un luogo inaccessibile agli altri e, a volte, anche a noi stessi. E’ un tesoro da custodire, da far crescere e da difendere a tutti i costi.
Come possiamo immaginare questo luogo? Proviamo a raffigurarlo come uno spazio dove ciascuno di noi può incontrare pienamente se stesso. Non è facile da raggiungere perché è molto più semplice muoversi rimanendo in superficie.
Eppure è fondamentale arrivare a “prendere possesso” della nostra intimità, perché solo così saremo in grado di agire in funzione di motivi profondi, con la piena consapevolezza delle nostre azioni. E allora potremo ritenerci davvero liberi.
Non è facile. Per esempio, vi siete mai chiesti come mai sono spesso le crisi esistenziali che permettono a una persona di ritrovare se stessa? Perché? La sofferenza, la crisi, il dolore, ci interrogano sul senso della vita. Ci costringono a fermarci e a porci domande. Spesso ci fanno rimanere soli con noi stessi. E non è forse vero che è proprio quando ci guardiamo dentro, che scopriamo il vero piano dell’esistenza umana?

La scoperta dell’intimità
Non possiamo certo aspettare una crisi esistenziale per scoprire e impossessarci della nostra intimità. Dobbiamo trovare la strada ordinaria, una strada che comunque è piena di ostacoli.
Viviamo nell’era dell’immagine, che ci fa vivere proiettati più sulla realtà esterna che dentro di noi; veniamo sollecitati soprattutto nella nostra dimensione sensoriale ed emotiva e non si ha più il tempo né la voglia di usare l’intelligenza che, vale la pena ricordarlo, è la facoltà che permette all’uomo di intus legere (leggere dentro) le cose e gli avvenimenti.
Siamo circondati da mille distrazioni che ostacolano prima la scoperta e poi lo sviluppo della nostra intimità: lo stordimento delle emozioni forti, la massificazione, la superficialità, la fretta, l'attivismo, i rumori, la banalizzazione della sessualità…
Prendiamo il rumore, per esempio. Quanti di noi hanno paura di rimanere in silenzio? Se ci pensiamo bene, siamo costantemente accompagnati da rumori di sottofondo: a scuola, in TV, in autobus, in mezzo al traffico, per strada, in panineria, al pub… Siamo così abituati al rumore che ritrovarci improvvisamente in un luogo silenzioso a volte ci dà quasi fastidio.
Eppure, passato il primo momento di disorientamento, il silenzio può condurci a provare l’emozione di ascoltare addirittura noi stessi!

Chi mi vuole?
Per prendere possesso della nostra ricchezza interiore, dovremmo imparare a saperla usare bene e quindi, per esempio, ad essere in grado di difenderla da ciò che la può danneggiare, come l'invadenza da parte di altre persone.
Saper usare bene la propria intimità significa anche essere capaci di donarla senza perderla. Questo vuol dire evitare di aprirla a chiunque o in qualsiasi momento. Il tesoro della nostra intimità va concesso soltanto alle persone giuste e al momento opportuno.
Un ragazzo o una ragazza che offrono la propria intimità – i propri sentimenti e affetti, la propria storia, i propri segreti, fino al proprio corpo – al primo che capita, è come se stessero svendendo questo tesoro; o meglio, è come se non si rendessero conto di possederlo.
Un ragazzo così, come potrà mai costruire una profonda relazione di amicizia, o ancora di più, di amore verso una ragazza, relazioni che si fondano entrambe sulla condivisione della propria interiorità?
Se non possiede – o non è convinto di possedere – nessun tesoro, che cosa potrà condividere, che cosa potrà donare a un’altra persona? L’intesa, in una storia di amore, è innanzitutto condivisione di ciò che di più intimo abbiamo.
L’intimità va quindi difesa a denti stretti e con molta decisione. Ne va della nostra felicità!
A questo serve la virtù del pudore. E non mi riferisco solo all’intimità del corpo ma anche e soprattutto a quella dell’anima.
Oggi si tende a considerare il pudore come qualcosa di superato, di artificioso, quasi un ostacolo alle naturali manifestazioni della propria personalità. E invece il pudore non è altro che la tendenza, presente in ogni uomo, a nascondere ciò che appartiene alla propria intimità. Non ci vestiamo solo perché vogliamo proteggerci dal freddo ma anche per celare agli altri ciò che non va mostrato indiscriminatamente. Ci teniamo a custodire il diario personale perché lì c’è qualcosa di nostro che desideriamo mostrare solo a chi si merita la nostra fiducia. E così via: ognuno di noi pretende e ha diritto di difendere la propria stanza, i propri spazi, il proprio tempo, i propri silenzi… Sentiamo tutto questo così intimo a ciascuno di noi tanto da non essere più qualcosa che ci appartiene ma addirittura la manifestazione di noi stessi.
La persona, quindi, è un essere che ha intimità, e avere intimità significa possedersi. Solo se mi possiedo mi potrò donare a un’altra persona, potrò fare di me un dono che la persona amata non finirà mai di scoprire.
Nella bellissima Come musica, Jovanotti canta: siamo stati sulla luna a Mezzogiorno, andata, solo andata senza mai un ritorno. Abbiamo fatto piani per un nuovo mondo, ci siamo accarezzati fino nel profondo... Ma c'è ancora qualcosa che non so di te: al centro del tuo cuore che c'è?
Non è bello sapere che mai finiremo di conoscere la ricchezza della persona che amiamo?

Un tesoro da far crescere.
Se abbiamo compreso che l’intimità è un tesoro da custodire, come faremo per andare oltre e farla crescere?
Esiste un grande eppur quotidiano mistero. Tutti gli uomini ne partecipano, ma pochissimi si fermano a rifletterci. Quasi tutti si limitano a prenderlo come viene e non se ne meravigliano affatto. Questo mistero è il tempo.
Esistono calendari ed orologi per misurarlo, misure di ben poco significato, perché tutti sappiamo che, talvolta, un'unica ora ci può sembrare una eternità, e un'altra invece passa in un attimo... dipende da quel che viviamo in quest'ora.
Perché il tempo è vita. E la vita dimora nel cuore.
Così scrive Michael Ende nel suo romanzo Momo. Il tempo è una risorsa indispensabile per coltivare la propria intimità. Tempo dedicato alla lettura, ad ascoltarsi, ad annoiarsi. La vita ci ha abituato a non perdere neanche un momento facendo qualcosa di inutile, a non fare nulla che non abbia uno scopo ben preciso. E si corre, si corre, per non rimanere mai indietro e soprattutto per non rimanere mai da soli. La solitudine ci mette paura, perché costringe ciascuno di noi a chiedersi: chi sono io? Ma se è così, allora ben venga la solitudine, ben venga la noia!
Il tempo, poi, è una risorsa formidabile per far crescere la condivisione dell’intimità tra due persone che si amano; sì, perché esso permette di costruire una storia, ed è nella storia che si sviluppa quel clima di conoscenza reciproca che a poco a poco fa maturare la confidenza, che a sua volta permette di condividere la propria intimità in maniera sempre più profonda fino alla condivisione totale (anche nel corpo), tipica della comunione piena di chi si è donato per sempre. E in questa relazione d’amore con un tu, l’io trova ulteriore consistenza, perché, per quanto noi ci guardiamo dentro per trovare la parola “io”, quest’ultima non potrebbe esistere se non ci fosse un'altra persona in cui specchiarci. Per questo una relazione autentica di amicizia o di amore ci permette come non mai di conoscere meglio noi stessi.
Non ci resta che concludere, tornando alle parole con cui è iniziato questo articolo: fino in fondo. Non c’è altra strada, se vogliamo trovare un antidoto alla superficialità: essere, voler essere profondi. Arrivare fino all’essenziale, che si trova in fondo al cuore. Arrivare a conoscere – e ad amare – se stessi.
In quel capolavoro di libro che è Il piccolo principe, Antoine de Saint-Exupery fa dire alla volpe che l'essenziale è invisibile agli occhi.
Perché si trova nel cuore.

Articolo pubblicato sul numero di novembre di Dimensioni Nuove

lunedì 31 ottobre 2011

Il tempo, linguaggio dell'amore


Grazie per il tempo che mi dedichi. Me lo sono sentito dire più volte, nelle ultime settimane, da alcuni ragazzi che ho avuto la fortuna di affiancare in un momento delicato della loro vita: quello del passaggio dal liceo all’università.
Fare l’orientatore è la mia professione. Ma in questo caso i liceali in questione erano prima di tutto amici. Sono amici: persone a cui voglio bene. Per questo motivo quelle parole mi hanno un po’ sorpreso, non me le aspettavo, perché agivo per amicizia e basta.
Grazie di che? – ho pensato – Il tempo “perduto” con un amico non ha prezzo.
Eppure quelle parole mi sono rimaste impresse per molti giorni. E mi hanno dato lo spunto per riflettere su due tesori che arricchiscono la nostra vita e rendono più bello il rapporto che abbiamo con gli altri.
Il primo tesoro è il saper ringraziare. E’ una delle cose più nobili che una persona possa fare.
La aiuta a rimettersi al suo posto, che non è il centro dell’universo.
La predispone alla gioia: di solito chi ringrazia è sorridente.
La aiuta a comprendere che nella vita non tutto è dovuto. Che la vita stessa non è dovuta.
La aiuta ad apprezzare il dono.
Le insegna un linguaggio dell’amore.

Il secondo grande tesoro è il tempo. Michael Ende, nel suo romanzo Momo, scrive che il tempo è un grande eppur quotidiano mistero. Quasi tutti si limitano a prenderlo come viene e non se ne meravigliano affatto.
Troppo spesso dimentichiamo che il tempo è la risorsa più preziosa di cui disponiamo, oggi più che mai, quando sembra che tutto debba essere fatto di fretta. Per chissà cosa poi?
E ancora, Ende ci ricorda che il tempo è vita. E la vita dimora nel cuore.
Ma il cuore è la sede degli affetti. Per questo mi piace dire che il tempo è il linguaggio dell’amore. E questa volta non dico che è un linguaggio con cui si esprime l’amore. Ma è il linguaggio per eccellenza, il linguaggio universale con cui manifestiamo l’amore per un’altra persona: ogni modo con cui amiamo un’altra persona passa necessariamente per il tempo.
Gary Chapman parla di cinque linguaggi con cui ogni uomo ama o vuole essere amato. Cinque modi con cui esprimiamo o riceviamo amore: dire parole di rassicurazione, far passare momenti speciali, donare qualcosa, fare gesti di servizio e, infine, il contatto fisico.
Ogni persona predilige uno o più di questi linguaggi per esprimere e ricevere amore. Raramente li accogliamo tutti e cinque. Ebbene, il tempo li sovrasta tutti, perché in tutti entra prepotentemente: non ci sarebbero momenti speciali, né parole rassicuranti, né doni o gesti di servizio e neanche contatto fisico se non impegnassimo in tutto ciò il nostro tempo.

Il tempo è denaro, dice qualcuno. Forse è un’affermazione riduttiva. Sarebbe meglio dire che il tempo è tesoro. Un tesoro che ha il potere speciale di rendere uniche e irripetibili le nostre relazioni con le persone che amiamo.
Ed è anche il tesoro migliore che possiamo trasmettere ai ragazzi. Un tesoro che ha il potere di cambiare i loro cuori, molto più delle belle parole, che spesso lasciano il tempo che trovano.
Non ne siete convinti? Provate a guardare negli occhi un amico che vi dice “grazie per il tempo che mi dedichi…”

Articolo pubblicato sul blog della rivista Familiaria

sabato 22 ottobre 2011

Un minuto virtuale per una vita reale


Forse non ci avete mai pensato ma sapete quante cose accadono su internet in un solo minuto? Qualche settimana fa su alcuni quotidiani è stata riportata una statistica che dà l’idea di quanto tempo si investe su internet & dintorni.
Alcuni dati su tutti: in un solo minuto, in tutto il mondo vengono inviate 168 milioni di mail, inseriti 600 nuovi video su Youtube, i server di Google rispondono a quasi 700 mila interrogazioni e tali sono anche gli aggiornamenti di stato su Facebook, con 510 mila commenti postati sulle bacheche del social network più famoso del pianeta. E ancora, in un solo minuto nascono 60 nuovi blog e vengono scritti 1500 nuovi post.
Gli articoli che ne hanno parlato non hanno specificato quanto questi dati siano veritieri. In ogni caso fanno riflettere molto.

Buona parte del nostro tempo oggi è occupato dal web. Siamo costantemente connessi con il mondo, viviamo quasi tutto in tempo reale.
E’ un bene? E’ un male? Dipende; di certo possiamo dire che è un dato di fatto. Anche sui numeri che ho riportato all’inizio si può dire tutto e il contrario di tutto.
I profeti di sventure – e tra questi diversi adulti – diranno che oggi i ragazzi non comunicano più, che non hanno relazioni autentiche, che vivono in un mondo virtuale e quindi falso. Mi sembra eccessivo.
I più ottimisti arriveranno a dire, come è successo recentemente, che stare sui social network migliora addirittura la capacità di avere relazioni reali. Anche questo mi sembra un tantino esagerato.
In medio stat virtus, scriveva Aristotele, che mi piace tradurre in questo modo: in mezzo va trovato il giusto equilibrio tra le due posizioni opposte.
E allora proviamo a trovare questo giusto equilibrio: ciò che ci rende felici non è stare o meno su internet, ma entrare in relazione con qualcuno, meglio se in carne ed ossa. Inviamo mail, stiamo su Facebook, creiamo profili e aggiorniamo il nostro blog o la nostra bacheca perché sappiamo che qualcuno se ne accorgerà e ci gratificherà in qualche modo, fosse anche con il “mi piace” di Facebook. Altrimenti non lo faremmo e ci cercheremmo altre strade per manifestare la nostra natura di animali sociali, per citare ancora il grande filosofo greco.

Insomma, che la gente faccia tutte quelle cose su internet, in un solo minuto, non mi sembra un problema. Anche perché la giornata è fatta di molti altri minuti, che potremo impiegare in relazioni vere, a tu per tu, faccia a faccia.
Magari proprio grazie alla “preparazione” fatta attraverso il web… 

Articolo pubblicato sul blog della rivista Familiaria

martedì 18 ottobre 2011

La testa & il cuore


Prima a Teramo, poi a Perugia: due città, la stessa storia. Due bambini uccisi dal sole cocente, dopo essere stati dimenticati dai rispettivi papà sul sedile posteriore dell’auto.
Due fatti che, solo due mesi fa, hanno sconvolto gli italiani, anche per via della vicinanza temporale tra di essi.
Come è potuto accadere? Come è possibile che un papà possa dimenticare il proprio figlio in auto, andare a lavoro, e non pensarci per ore e ore? Come è possibile? Sono domande alle quali faccio fatica a trovare risposta.
Forse è perché ho un nipotino di otto mesi che torna costantemente nel mio cuore e nella mia mente, molte volte al giorno, che non ci riesco.
Eppure le persone verso le quali sento profonda pena, sono proprio i due papà, che difficilmente potranno liberarsi di questo dolore fino all’ultimo giorno della loro vita. Due papà che nessuno di noi può giudicare ma solo comprendere nella loro immensa sofferenza.

Torno a chiedermi: come può un papà dimenticare in auto il proprio bambino?
Dimenticare significa letteralmente fare uscire di mente. Ancora più inquietante è l’etimologia della parola “scordare”, che significa togliere dal cuore. Quando mi scordo qualcosa, è perché quella cosa non sta nel mio cuore; il mio cuore si trova da un’altra parte, è messo su qualcos’altro che per me è più importante.
Considerare il significato di queste parole mi lascia ancora più sgomento. Come può un papà fare uscire di mente il proprio figlio, come può farlo cadere dal cuore? E’ impensabile, è contro la natura umana.

Forse a qualcuno saranno venute in mente le parole del libro di Isaia: “si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro ti dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”. E’ incredibile: neanche Dio esclude che possa accadere una tragedia del genere, addirittura in una madre, che solitamente vive il rapporto con il proprio figlio in maniera più intensa del papà.
E’ un richiamo alla nostra debolezza, alla presa di coscienza dei nostri limiti. Sì, perché Dio non vive nel tempo e nello spazio; noi uomini invece sì. Ed è nel tempo e nello spazio che si manifestano i nostri limiti umani.
Qualche giorno fa mi trovavo con un amico; parlavamo di adolescenti, di come amarli e aiutarli a dare il meglio di sé. Entrambi eravamo assolutamente convinti che la risposta stava proprio in quelle due dimensioni che Kant definiva le forme pure dell’intelletto: lo spazio e il tempo.

Spazio e tempo sono il palcoscenico dove vanno in scena i nostri limiti. Ma sono anche la misura dell’amore.
E’ nella donazione dello spazio e del tempo che un uomo dimostra di amare. Fare entrare un’altra persona nel nostro spazio è sintomo di fiducia, di disponibilità, di amore, in definitiva. Entrare nello spazio di un’altra persona può avvenire solo se questa si fida di noi, se ci ritiene degni di tale passo.
Anche il tempo ci restituisce la misura dell’amore.
Michael Ende, in uno dei due splendidi romanzi che ci ha lasciato, descrive la vita di una bambina, Momo, che riesce a mettere armonia tra gli abitanti di un villaggio con il semplice fatto di donare loro il meglio di cui dispone: li ascolta, senza dire mai una parola (dona loro il proprio tempo), ricevendoli in un bosco fuori dal villaggio (li ospita nel suo spazio). Basta poco a Momo per far tornare a casa sereni tutti coloro che si rivolgono a lei con un problema, a volte apparentemente irrisolvibile.

Forse sta proprio nella attuale crisi dello spazio e soprattutto del tempo che dedichiamo alle nostre relazioni significative, la risposta alla domanda che non finisce di tormentarmi da giorni: come è potuto accadere?
Un liceale mi raccontava giorni fa della cena di fine anno con i professori e i genitori come di una cena sfigata, perché a 18 anni una cena con i prof e i genitori è effettivamente da sfigati… Mi sono messo a ridere, pensando che una frase del genere ci sta tutta se uno si mette nella testa e nel cuore di un diciottenne.
Ma poi ho pensato a quanto bene fanno queste occasioni in cui si coltivano le relazioni, anche se si tratta di feste sfigate… Occasioni che permettono, come si dice nella mia terra, di perdere tempo con gli altri.
Magari dobbiamo riappropriarci del nostro spazio e del nostro tempo, che abbiamo venduto al lavoro, alla realizzazione personale, alle “cose da fare”, sempre di fretta: non sarebbe forse il modo migliore per gustare e assaporare meglio quello che facciamo?
Magari abbiamo bisogno di condividere maggiormente lo spazio e il tempo con gli altri, con le persone che ci stanno accanto, con i nostri amici e familiari: non è forse questa la materia prima di ogni relazione interpersonale?

Mi ha sempre fatto sorridere la pubblicità del Mulino Bianco che rappresenta una famiglia felice e spensierata, seduta attorno ad un tavolo a fare colazione come se il tempo non scorresse mai, come se nessuno avesse problemi. Una famiglia che ai più sembra finta, irrealistica, impossibile che possa esistere oggi.
Perché si arriva a pensare così, mi chiedo? Perché ci sembra finta una famiglia che, dopotutto, incarna i più nascosti desideri di felicità che riempiono il cuore di un uomo?
Può darsi che abbiamo bisogno di tornare a imparare la bellezza del perdere tempo con gli altri?
Dedicare tempo e spazio alle persone che amiamo è la cosa più bella e gratificante che possiamo fare. E’ il fondamento su cui poter costruire una relazione significativa. Ed è anche la base di ogni rapporto efficacemente educativo.
Rallentiamo il ritmo e la velocità della nostra vita perché le persone che amiamo possano affiancarci ed arricchirsi della relazione con noi.
Allora, forse, ci verrà più facile rimettere il cuore e la testa nelle cose e soprattutto nelle persone che per noi contano davvero.

Articolo pubblicato sul numero di Ottobre 2011 di Fogli

domenica 9 ottobre 2011

Come me nessuno mai


Chi sono io? Alzi la mano chi, almeno una volta nella vita, non si è posto questa domanda. Ed il momento in cui lo ha fatto è stato quasi sempre l’inizio dell’adolescenza, che molti chiamano l’età delle domande: chi sono io? Perché sono qui? E, soprattutto, che cosa sono venuto a fare in questo mondo? Quale sarà il mio compito?
Sono domande impegnative, che richiedono risposte altrettanto impegnative.
A volte, però, si ha come l’impressione che una persona giovane non si ponga più di tanto queste domande e che preferisca rimandare tutto a un momento successivo più o meno indefinito, quando si sentirà adulta. Ma quando possiamo dire di essere diventati adulti? E, soprattutto, per la società in cui viviamo, quando possiamo considerarci adulti?
Qualche anno fa, un noto scrittore italiano di libri per adolescenti, in un’intervista rilasciata all’apice del suo successo – era da poco uscito un film tratto da un suo romanzo – disse: Ormai ho fatto le spalle larghe alle critiche, e considerato che come autore televisivo me ne hanno dette di tutti i colori, quelle sui libri e i film le considero un lusso. Quando sarò grande recupererò con i critici scrivendo un libro di quelli che piacciono a loro…
Per la cronaca, l’intervista è del 2008 e la persona in questione è nata nel 1963. A voi il compito di calcolare la sua età e giudicare il suo “quando sarò grande”…
Adulti che sono rimasti eterni adolescenti, film che fanno della frivolezza lo stile di vita prediletto dalle nuove generazioni, canzoni, videoclip e spot pubblicitari che presentano la vita come un gioco, educatori (prof e genitori in primis) in crisi di identità: come si fa a non pensare che tutto ciò non spinga a rimanere tremendamente superficiali?
Forse qualcuno storcerà il naso; ma credo che non sia così sbagliato pensare che un adolescente tenda per natura ad essere superficiale. Ma sono altrettanto convinto che accanto a questa “leggerezza” è facile trovare anche il desiderio di fare della propria vita qualcosa di grande.
“I ragazzi, oggi, non si fanno tante domande sul senso della vita, sulla loro identità, sul loro futuro. Vanno avanti a forza di emozioni.
Quelle domande se le pongono solo se incontrano lungo la loro strada la sofferenza. Allora, forse...”
Così mi diceva un amico al quale confidavo il mio desiderio di comprendere il cuore e la vita di tanti ragazzi.
Un’affermazione che mi ha fatto pensare: sarà vero che un ragazzo, una ragazza, non si fanno mai queste domande a meno che non vadano a sbattere violentemente contro il muro della sofferenza?

La paura di non piacere
Mi chiedo se quello che succede ai ragazzi non sia tanto che essi non si facciano le domande importanti della vita, ma che abbiano una paura matta di rispondere: la paura di non piacersi, di non essere come essi vorrebbero, o di come gli altri li vorrebbero. La paura di sentirsi sfigati, per utilizzare un termine molto usato da loro stessi.
Una paura che spinge a nascondersi dietro la maschera dell’apparenza, del voler essere come gli altri, come alcuni altri in particolare: quel personaggio della TV, quel cantante, quello sportivo, quel compagno di classe che lui sì che è un figo
È l’eterno dilemma dell’essere o dell’apparire, del mostrare le nostre luci e ombre oppure illuderci di far vedere agli altri solo le luci che ci rendono come vorremmo essere.
Non è facile. Qualche tempo fa leggevo su un forum: E' da sottolineare anche che noi adolescenti, fintanto che siamo adolescenti, non abbiamo una forma precisa. Essendo capaci da poco tempo di ragionare con la propria testa siamo alla continua scoperta di cose nuove, ci riempiamo di troppe cose e fino a quando non metteremo ordine a tutto questo contenuto saremo ragazzi dalla personalità indefinita, dalla forma indefinita...
Non è facile. Eppure è questa la sfida da vincere, che ogni adolescente, in fondo, vuole vincere, anche se ne ha una paura matta. Come cambierà la vita di un ragazzo nel momento in cui egli affermerà con convinzione: In questo mondo che mi vuole uguale agli altri, la vera scoperta è sapere che io sono unico, che la ricchezza più grande che possiedo sono proprio io!
“Io sono unico!”: solo quando un ragazzo arriva a far propria questa convinzione diventa davvero libero. Fino ad allora rimane nel limbo della dipendenza dai modelli che ha scelto per orientare la propria vita e non è difficile che questa sia accompagnata da sofferenze ed errori, come quello di scambiare l’originalità con la stravaganza oppure con l’assenza di legami.
A volte, per voler essere originali a tutti i costi, dimentichiamo la nostra storia, il nostro ambiente, le nostre relazioni, la nostra responsabilità sugli altri, la vita reale… E non consideriamo che l’originalità consiste, come diceva Gaudì, nel tornare alle origini. Senza storia personale non nascono storie, come ci ricorda Alessandro D’Avenia.
Vorrei non avere questi genitori, vorrei non essere nato in questa città, vorrei essere di un’altra condizione sociale, vorrei, vorrei… Ok, ma spesso la realtà è un’altra. E il modo migliore perché la mia vita diventi quella storia particolarissima che solo io posso scrivere su questa terra, è partire dalla mia storia personale, che tiene conto della mia famiglia, della mia città, della mia condizione sociale.
E’ questo lo sfondo grazie al quale potrò dare rilievo al personaggio che sono io stesso. Come in un quadro, dove le luci risaltano proprio grazie alle ombre e viceversa.
Solo se ci accettiamo per quello che siamo potremo fare di noi stessi, della nostra originalità, un dono. Altrimenti che cosa potremo donare agli altri? Quando facciamo un regalo a una persona a cui vogliamo bene, i primi a cui il regalo deve piacere siamo proprio noi. Chi di noi regalerebbe alla propria ragazza, nel giorno del suo compleanno, una copia sbiadita de I promessi sposi? Con tutto il rispetto per il capolavoro di Manzoni, sarebbe l’inizio della fine della storia…

Vincere la paura di andare a fondo.
Quante volte ci è capitato: nessuno riesce a comprenderci, ci sembra di essere intrappolati in un sistema, in un meccanismo a cui non si può sfuggire... Fare progetti? Inutile, tanto non si avverano mai. Avere dei sogni? Sono cose da bambini. Meglio lamentarsi, è così semplice. Il problema alla base di tutto il malessere che c'è tra i ragazzi è il non sapere più chi si è. Si cerca un'identità-stereotipo perché non si riesce più a crearne una vera... Abbiamo paura di quello che siamo davvero, della verità...
Così scriveva una liceale in un tema. Ancora una volta emerge la paura di conoscersi, che spinge a rimanere sulla superficie delle cose.
Una paura tutto sommato comprensibile e naturale. Scrivevo all’inizio che gli adolescenti tendono a essere superficiali per natura, di una superficialità che normalmente decresce col passare dell’età. Iniziano a conoscersi partendo dall’esterno, e, poco alla volta, scoprono la propria interiorità e la propria identità.
Ma fino a quando rimangono in superficie – e questo vale anche per gli adulti – corrono il rischio di sentire male la realtà, di non saperla cogliere in tutta la sua pienezza.
Quante ragazze si lamentano della superficialità del loro ragazzo, che pensa al calcio mentre magari loro stanno passando un brutto momento, di cui lui non si accorge neanche?
Il superficiale sente male la realtà, anche la propria; per questo fa fatica a riconoscere persino la sua identità. E se una persona non trova la propria identità, la cosa più probabile è che la prenda in prestito fuori di sé.
Non è strano allora che si senta la necessità di apparire, presentandosi con la cinta o il cappellino firmati, con i pantaloni a vita bassa, o il piercing, o il tatuaggio senza il quale si sentirebbe uno sfigato fuori dal gruppo.
Una persona che ha un’identità presa in prestito si ritrova presto o tardi sola e vuota. Avrà difficoltà a costruire un progetto della sua vita e, inevitabilmente, andrà alla ricerca di emozioni forti che lo aiutino a colmare il vuoto che porta dentro. Ricordate il “Carpe diem” di Orazio, reso ancora più celebre da un famoso film di qualche anno fa?
Carpe diem, quam minimum credula postero: cogli l’attimo, confidando il meno possibile nel domani, scriveva il poeta latino. Un motto fatto proprio da molti ragazzi che, timorosi di confrontarsi con sé stessi, non provano neanche a reggere il peso di un futuro che fa loro solo paura.
Non è raro ascoltare frasi del genere: a che serve progettare il futuro? Il mondo non lo posso cambiare. Ma posso fare vibrare il “mio” mondo. Meglio vivere come se il mondo finisse domani. Ma se tutto dipende dal momento presente e si vive come se il domani non ci fosse, allora ogni attimo presente assume una dimensione enorme e dinanzi a qualsiasi cosa che non soddisfa o delude si avverte un senso di tragedia e irrimediabilità.
Senza la dimensione del futuro tutto si fa drammatico, anche un brufolo davanti allo specchio diventa motivo per non uscire di casa quel giorno.
Di fronte a tutto ciò, la risposta migliore è quella di alimentare la dimensione del desiderio, inteso come la capacità di immaginarsi, nel tempo, migliori di come si è adesso. Un desiderio che, a differenza dell’illusione, si fonda su un progetto realistico. Un desiderio che sarà la spinta per fare della propria vita qualcosa di veramente grande.
E dato che ho riportato la frase di Orazio, citata ne L’attimo fuggente, mi piace chiudere queste riflessioni con una delle frasi più belle che il prof. Keating rivolge ai suoi ragazzi: che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso.
Quale sarà il tuo verso?

Articolo pubblicato sul numero di ottobre di Dimensioni Nuove

giovedì 29 settembre 2011

Interruzione volontaria di gravidanza: quando la coscienza dorme

Non mi era mai successo di assistere ad un congresso della SIGO, la Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia. Né penso che mi ricapiterà facilmente. Non sono un medico e quindi non è il mio campo. Sono un formatore e in questa veste sono stato invitato da un ginecologo che, conoscendo le attività pro-life di Cogitoetvolo mi ha informato dell’incontro e mi ha chiesto di essere presente per rendermi conto di quale aria si respira oggi nel mondo dei ginecologi. Che, per inciso, sono medici; cioè dovrebbero curare, guarire, salvaguardare la vita umana…
E’ il 27 settembre e sono quasi le nove del mattino. Arrivo in ritardo rispetto all’inizio dell’incontro. Si sa che nella città dove vivo il problema più grande è il traffico. Quando piove, poi, le strade diventano una specie di calamita che attrae prepotentemente, fin quasi a bloccarle, le auto. Non sarei arrivato neanche per metà mattina se non avessi deciso di lasciare l’auto e fare l’ultimo tratto a piedi, sotto la pioggia
Arrivo con un po’ di ritardo, quindi, ed entro nell’aula dove si sta svolgendo il seminario.
Il titolo del convegno è una sigla: IGV. Già, perché chiamarlo aborto sarebbe pesante e ti farebbe pensare a quello che stai facendo. Ma se invece di aborto si parla di interruzione volontaria di gravidanza, forse suona meglio. Se poi si usa una sigla anonima, IVG, è ancora più facile dimenticare che stai uccidendo un’altra persona.
Sta parlando la dott.ssa Mirella Parachini. Non la conosco; chi mi accompagna mi dice che si tratta del presidente dellaFederazione Internazionale degli operatori di Aborto e Contraccezione, nonché membro di Direzione dell’Associazione Luca Coscioni (la battaglia per l’eutanasia vi dice qualcosa?). Insomma, un bel biglietto da visita per un medico.
Ascolto le parole dei vari relatori che si susseguono. In Italia sette ginecologi su dieci sono obiettori, si lamenta uno di loro. In questo modo, sostiene, come fa un ospedale a garantire le procedure previste dalla legge 194? Ascolto, piuttosto contrariato e penso: come può un medico chiamare “procedure” delle tecniche che hanno come fine quello di eliminare una vita umana?
Continuo ad ascoltare e rimango sconcertato dal modo in cui chi dovrebbe fare della sua professione una missione di vita parli invece di morte, senza mai citarla esplicitamente: feto, aborto medico, aspirazione, ecografia per vedere se c’è ancora qualcosa da togliere, espulsione del materiale abortivo, feticidio. La nausea è totale quando sento uno dei relatori dire che, purtroppo, in Italia, è poco diffusa la tecnica dell’iniezione intracardiaca di cloruro di potassio. Sarebbe indubbiamente la tecnica più vantaggiosa, dice, perché provocando l’arresto cardiaco, eliminerebbe per il medico l’obbligo di dover rianimare il feto qualora, per un aborto riuscito male, nascesse ancora vivo.
Sto per vomitare…
Al termine dell’incontro assisto ad un acceso confronto tra uno dei relatori ed un medico antiabortista. A un certo punto il primo, quasi per volersi giustificare, sbotta: “Guarda che noi i bambini li facciamo nascere!”
Ascolto in silenzio. Noi i bambini li facciamo nascere, continua a ripetere. Come a sottolineare che proteggere la vita, per un medico, è la normalità.
Almeno fino a quando la coscienza non si addormenta.

Articolo pubblicato su Cogitoetvolo

venerdì 16 settembre 2011

Caro Vasco, questa volta c’è chi dice no

Eh già… Io sono ancora qua… Parola di Vasco Rossi!
Così cantavi qualche mese fa, come a voler gridare al mondo che, nonostante tutto, nonostante i tuoi imminenti sessant’anni, non avevi nessuna intenzione di metterti da parte.
In realtà, devo confessarti che a me qualche dubbio era venuto. Diciamocelo francamente, il testo è proprio scarso: niente a che vedere con Alba chiara, Un senso, Liberi liberi, Il mondo che vorrei…

Insomma, una delusione. Ma soprattutto ho pensato con un po’ di preoccupazione – sai, sono un tuo fan da sempre – che per te si stava avvicinando la fine della tua lunga e fantastica carriera. Era come se gridassi al mondo la tua paura di uscire di scena, da una scena che ti vede protagonista incontrastato del rock italiano da più di trent’anni!
Era come se dicessi ai tuoi fan: guardate che io ci sono ancora, sono ancora vivo, pensando però tra te e te, con un po’ di preoccupazione, nonostante i miei acciacchi, la mia età, i miei problemi…

Poi è arrivata la prima doccia fredda: “Alla fine di questo tour, dopo trent’anni di carriera, dichiaro felicemente conclusa la mia straordinaria attività di rockstar”.
Delusione!
Ma non finiva qui, perché poi i TG hanno cominciato a raccontarci del tuo misterioso male che, per settimane, ti ha tenuto – e ti tiene ancora - in clinica.
Delusione e paura!
E infine, sono iniziati i tuoi deliri su Facebook.

A questo punto, però, dopo la delusione e la paura, ho cominciato a pensare alle parole di una delle tue canzoni che mi piace di più, quella che fa così: c’è chi dice no, c’è chi dice no, io non ci sono…

Eh già, Caro Vasco, questa volta io dico “no” e non ci sono proprio!
Cioè, non è che non sappiamo come la pensi su droghe, alcool, regole, libertà.. Ma sai, sentircelo dire in una canzone è diverso. Forse è più leggero, perché al testo si sovrappone la musica, l’adrenalina, la rabbia che ci trasmetti e magari non ci soffermiamo troppo sulle parole.
Ma senza la musica, senza l’adrenalina, senza la rabbia, allora sì che leggendo quello che dici viene voglia di svegliarsi e dire: io non ci sono. Io, davanti ai tuoi deliri dico “no”: non ci sono!

Parli tranquillamente degli antidepressivi come fossero caramelle, facendoci credere che tutto sommato si vive bene anche così…
Ci dici che non è mai morto nessuno a causa di uso o abuso di marija…
Oppure che se avessi un cancro non ti faresti curare e te ne andresti ai Caraibi…
Ripeti – anche tu, nel gregge – che bisogna tassare i beni della Chiesa…
Attacchi i tuoi colleghi, qualcuno in particolare, credendoti dio in terra…

Che delusione, Vasco!
Più deluso dal vederti dietro uno schermo a scrivere frasette che dal non vederti più in giro a riempire gli stadi. Tristezza.

Basta col delirio da rockstar in pensione.
Coraggio, dai! Ripensaci! Torna a cantare. Torna a farci sognare.
Almeno quello lo sai fare benissimo.

Articolo pubblicato sul blog della rivista Familiaria

martedì 6 settembre 2011

GMG 2011: giovani controcorrente

E' ancora fresco il ricordo di quello che è successo a Madrid qualche settimana fa. Centinaia di migliaia di giovani di tutto il mondo che si sono ritrovati in una città per celebrare la Giornata mondiale della gioventù. Non un concerto rock. Non un rave party. Non la finale di un campionato di calcio. No. Quasi due milioni di giovani erano a Madrid per una giornata, o meglio, per trascorrere diverse giornate all'insegna della preghiera.

In Italia se ne è parlato poco. Non è abituale che sui giornali si scriva di giovani che pregano. Non se ne parla perche farlo sarebbe politicamente scorretto. Non è di moda. Non è trendy. E quindi neanche per la Gmg 2011 la stampa italiana è riuscita a descrivere in tutta la sua meraviglia quello che è successo veramente a Madrid.
Non sará trendy ma quello che abbiamo visto in Spagna è stato straordinario. Qualcuno ha parlato di miracolo, di orgoglio cattolico, di suggestione giovanile di massa. Di questo i giornali hanno parlato. E anche di polemiche e proteste contro la visita del Papa.

Ma noi abbiamo vissuto un'altra cosa. Mi piace scrivere noi, anche se io non c'ero. Non c’ero fisicamente, ma ero lì col cuore. Mi piace scrivere noi anche se la mia età anagrafica non mi classifica più come giovane. Un amico, diciottenne, mi diceva che io avrei potuto partecipare alla Giornata mondiale dei meno-giovani… Scherzava, perché sa che io mi sento più giovane di tanti ragazzi che dentro sono molto vecchi.
Sta di fatto che non c’ero. Ma posso permettermi di scrivere lo stesso che noi abbiamo vissuto un'altra cosa rispetto a quella descritta dai giornali. Non un miracolo ma la gioia di quasi due milioni di giovani desiderosi di innalzare il cuore a Dio. Non orgoglio cattolico ma convinzione di essere una grande famiglia spirituale. Non suggestione emotiva ma preghiera bella e buona. Preghiera vera, autentica, sincera: il silenzio della veglia al momento dell'adorazione eucaristica ha fatto più rumore di qualunque altra cosa.

Da alcuni giorni i ragazzi sono rientrati alla loro vita abituale. Adesso inizia la parte più bella e difficile della Giornata mondiale della Gioventù. 
Bella, perché i ragazzi sono tornati con il cuore pieno di gioia e con il grande desiderio di cambiare il mondo.
Difficile, perché per cambiare il mondo bisogna prima cambiare se stessi.
Ma una cosa è certa ed i volti gioiosi visti ad agosto a Madrid non lasciano dubbi: molti giovani potranno guardare al futuro con la speranza di chi sa che sta camminando al fianco di Colui che ha vinto il mondo. E non è poco.

Articolo pubblicato sul blog della rivista Familiaria

venerdì 22 luglio 2011

Femminilità. Inseguire i propri sogni si può, senza dimenticare ciò che si è.

Non è un film ma la realtà: lo sapevate che esiste un luogo dove è vietato chiamare i bambini usando il pronome “lei” o “lui”, ma solo quello neutro “hen”? Succede in un’isoletta della Svezia, dove il delirio dell’ideologia ha realizzato un asilo il cui progetto pedagogico, in ossequio alla lotta contro la discriminazione sessuale, è quello di crescere i bambini nella maniera più neutrale possibile.
La società si aspetta che le bambine siano femminili, dolci e carine e che i bambini siano rudi, forti e impavidi. Egalia - è il nome dell’asilo - dà invece a tutti la meravigliosa opportunità di essere quel che vogliono”. Così si esprimeva una delle insegnanti dell’asilo svedese in un articolo apparso su un quotidiano nazionale qualche settimana fa.
Non è di identità di genere che parleremo in queste righe; tuttavia ho voluto cominciare con questo esempio perché sono convinto che se chiedessi ad un ragazzo di dirmi come immagina la sua ragazza, probabilmente tra le sue parole non mancherebbero aggettivi come femminile, dolce, carina… Proprio le parole che fanno paura all’insegnante svedese.

Femminile, dolce, carina: aggettivi che difficilmente smetteranno di accompagnare, nell’immaginario maschile, l’ideale della donna da amare. Non che molte donne non siano anche forti, coraggiose, determinate; ma non sono queste le qualità che, almeno inizialmente, un uomo cerca in una donna.
Eppure è innegabile che le ragazze di questo scorcio di millennio sono profondamente diverse dalle loro coetanee di qualche anno fa. Come e in che cosa è cambiato allora l’universo femminile odierno?
Una ragazza mi raccontava di aver trovato in soffitta il libro di educazione tecnica delle scuole medie di sua madre e di essere rimasta stupita per il fatto che era tutto fuorché l'educazione tecnica che aveva studiato lei. Si intitolava "Il mio domani"ed era praticamente un manuale della brava casalinga: come usare i nuovi elettrodomestici (aspirapolvere, lucidatrice), come stirare bene, come togliere le macchie, ecc...

Forse è questa una prima grande novità del nostro tempo: le aspirazioni delle ragazze sono cambiate profondamente; esse vogliono realizzarsi negli studi compiuti liberamente anche lontano da casa, hanno maggiori aspirazioni in ambito lavorativo, guardano prima al lavoro e poi alla famiglia.
Meglio o peggio, verrebbe da chiedersi? Probabilmente nessuno dei due. Semplicemente vivono in un mondo che è cambiato e che quindi richiede nuovi modelli di riferimento per realizzare la propria femminilità.
Una cosa però mi pare sia rimasta invariata in un’adolescente di oggi come di trent’anni fa: il forte desiderio di rendere grande la propria vita. Per questo le ragazze non smettono mai di sognare. Una capacità che, ne sono convinto, oggi è uno dei punti di forza dei giovani; forse perché risalta maggiormente, a confronto con la delusione tipica di molti adulti, che invece non sognano più…
I sogni, però, devono fondarsi sulla realtà concreta perché possano trasformarsi in progetti. Altrimenti rimangono solo sogni e quasi sempre, quando è così, deludono profondamente.
E qui tocchiamo un tasto dolente. Vero è che i ragazzi e le ragazze sanno fantasticare sulla propria vita; non è raro, però, che questa capacità di sognare si spenga dopo le prime delusioni. Oggi, infatti, diventa sempre più frequente trovare ragazze che già a vent’anni non credono più che la vita possa renderle felici. Come mai? Esse hanno più opportunità, maggiore libertà, più facilità negli spostamenti e nell’ottenere ciò che vogliono, eppure non basta a evitare la disillusione che è sempre più diffusa. Questa contraddizione mi sembra un’altra grande differenza tra le adolescenti di oggi e quelle di qualche anno fa.

Che dire poi della “intraprendenza” che molte ragazze mostrano nelle relazioni affettive? Chi può negare che fino a pochi anni fa l’iniziativa in questo campo era una prerogativa dell’uomo, mentre oggi sembra quasi che i ruoli si siano invertiti? Per di più si assiste in misura crescente ad una vera e propria mascolinizzazione delle ragazze: molte di esse sono diventate più maschili nel modo di vestire, nei modi fare e anche nel linguaggio. Mi chiedo se e quanto questa caratteristica, tipicamente attuale, possa condizionarle negativamente nella loro realizzazione personale di donne.
Leggevo qualche settimana fa che in Inghilterra una donna su tre prende psicofarmaci contro la depressione. L’autrice dell’articolo si chiedeva se la causa di ciò fosse da addebitarsi alla perdita del senso di essere donna: non sarà l’eccessiva emancipazione – diceva – a far perdere la bussola alle donne su chi sono veramente?
Penso che sia difficile poter dimostrare questa tesi, ma sembra comunque certo che oggi le ragazze sono estremamente fragili ed esposte a rischi che fino a qualche anno fa erano molto ridotti, se non del tutto inesistenti.
Un esempio? La disillusione sull’amore, che agli occhi di molte di esse diventa sempre meno definitivo e sempre più precario; quante ragazze, dopo le prime delusioni, fanno una gran fatica a continuare a credere ad un amore eterno! “A che serve se tanto prima o poi finisce?”, sembrano dire con il loro atteggiamento disilluso e a volte cinico.
Personalmente penso che sia difficile spegnere definitivamente il desiderio dell’amore che dura per sempre, innato in ogni persona. Ma la tentazione di non crederci più è costantemente dietro l’angolo.

Ecco allora come appaiono molte ragazze oggi: fragili, disorientate e confuse. L’anticipo del periodo in cui avvengono le prime mestruazioni (cinquant’anni fa era intorno ai 13-14 anni, oggi siamo scesi a 10-11 anni) non corrisponde ad una maturazione contestuale della psiche e del carattere. Le ragazze si sentono presto grandi ma in realtà sono più piccole di quanto sembrano. Ed in questo non vengono neanche supportate dai loro coetanei maschi, che sono decisamente più immaturi di esse e che fanno una grande fatica ad assumersi le proprie responsabilità.
Tempo fa una diciassettenne scriveva su un forum il motivo per cui fosse convinta che non c’era nulla di male nell’avere una “storia” anche con un quarantenne. Scriveva: oggi la società è senza modelli e senza valori, quindi perché non innamorarsi di un uomo di 40 anni che è molto maturo rispetto ad un ragazzo di 17 anni che si fa manovrare da una falsa società? Parole che si commentano da sole…

Mi rendo conto che non è facile fermarsi a queste poche considerazioni nel trattare un tema che meriterebbe ben altro approfondimento. E’ un limite che diventa ancora più evidente nel momento in cui si prova a trarre delle conclusioni.
Che dire? E’ fuori discussione che le adolescenti del terzo millennio sembrano avere maggiori potenzialità rispetto alle coetanee di qualche decennio fa. Nessuno lo nega.
Eppure per essere pienamente donna, per realizzarsi, non basta avere più chances. Non è questo l’essenziale.
Agli educatori, ma soprattutto alle educatrici – penso soprattutto alle mamme – tocca il grande compito di aiutare ogni ragazza a custodire come un gran tesoro la propria femminilità.
Difficilmente una donna potrà fare ad un uomo un regalo migliore di questo.

Articolo pubblicato sul numero di Giugno/Luglio 2011 di Familiaria

venerdì 24 giugno 2011

Il bene di chi?

Nelle isole Salomone, quando la gente di quelle tribù vuole deforestare un pezzo di giungla, per ricavarne terra da coltivare, quella gente non abbatte gli alberi. Si avvicina all'albero e lo insulta con ostinazione; poi lo maledice e, piano piano, l'albero alla fine si secca. Poi cade a terra da solo.
Sono parole tratte da un film che ho avuto la fortuna di vedere qualche mese fa. Da tempo un amico insisteva perché lo vedessi, ma un po’ per la mancanza di tempo, un po’ perché il titolo non mi attraeva più di tanto, ne avevo sempre rinviato la visione.
E invece ho avuto l’ennesima conferma che non bisogna mai fidarsi dei pregiudizi, perché l’ho visto e devo riconoscere che ne è valsa la pena: sembra fatto apposta per un educatore. Dovrebbero vederlo in particolare quei papà che mostrano insofferenza per un figlio che non è all'altezza delle loro aspettative, un figlio che, a loro dire, non fa bene qualcosa in cui “dovrebbe” invece essere il migliore.
Sempre che sia un bene per il figlio essere il migliore.

Sì, perché un genitore, quando fa di tutto, giustamente, per ottenere il bene di suo figlio, dovrebbe innanzitutto chiedersi: sto cercando il bene di chi? Il bene di mio figlio? Oppure quello che io ho deciso per lui?
La risposta sembrerebbe scontata, ma non è così. O, almeno, non lo è sempre.
Quanti papà proiettano nei figli le aspettative di una vita – la propria – della quale non si è pienamente soddisfatti?
O quanti pur non arrivando a questo, considerano lecito - quasi doveroso - pianificare il futuro dei propri figli? Altrimenti – pensano giustamente – non arriveranno mai ad essere qualcuno; non arriveranno ad essere felici.
Sembra di sentirle, queste parole, di fronte ad un insuccesso scolastico oppure sportivo del figlio: “Lui deve riuscirci, è per il suo bene! Altrimenti non sarà mai nessuno nella vita!”

A un papà o a una mamma che pensassero così bisognerebbe porre alcune domande.
Chi ha deciso che tuo figlio deve essere il più bravo della classe?
Chi ha deciso che deve diventare un campioncino di tennis? O che deve incantare compagni e parenti suonando divinamente il pianoforte?
Chi ha deciso che deve essere tanto bravo quanto lo è stato il fratello maggiore?
E se non ci riesce, ti sei chiesto il perché? Hai pensato che forse i suoi talenti sono altri, oppure che c'è qualcosa che lo blocca e che non riesce a comunicarti perché le tue pressanti richieste gli mettono paura e gli impediscono di parlarti?

E' bene che i genitori si facciano queste domande. Sì, perché una reazione sbagliata nei confronti di un figlio che non vuole o non riesce ad essere il migliore nell’ambito che essi hanno deciso per lui, potrebbe segnarlo per tutta la vita.
Potrebbe portarsi a lungo le ferite di non essere stato all'altezza di quello che i suoi genitori sognavano. E queste ferite sono difficili da rimarginare, soprattutto se gli sono state inferte, anche se involontariamente, da coloro le cui parole e i cui atteggiamenti hanno un grande peso - nel bene e nel male - nel suo viaggio verso la maturità.

Qualche tempo fa un ragazzo mi diceva che non avrebbe mai studiato, per non dare nessuna soddisfazione ai genitori: si sentiva sotto pressione da anni, e la sua reazione più naturale era quella di rifiutare per principio l’idea di prendere un buon voto a scuola. Reazione che lui stesso, razionalmente, giudicava illogica ma che emotivamente non riusciva a gestire in maniera diversa.

I ragazzi, soprattutto se adolescenti, hanno una spiccata sensibilità nel cogliere la coerenza e la sincerità dell’atteggiamento degli adulti che hanno di fronte.
Per questo non dovrebbe mai mancare, nei genitori, questa domanda: il bene di chi sto cercando? I ragazzi lo capiscono facilmente e reagiscono di conseguenza.

Per la cronaca, il film citato all’inizio è Stelle sulla terra, di Aamir Khan. E di stelle sulla terra se ne accendono ogni giorno a decine, centinaia, migliaia.
Tutte le volte che nasce un essere umano si accende una stella sulla terra. Una stella il cui compito è quello di splendere e dare luce a quella parte di firmamento dove le è toccato di stare; fosse anche l'angolo più nascosto del cielo, esso rimarrebbe al buio se mancasse la luce di quella stella... Non può permettersi di spegnersi.
Eppure di stelle spente anzitempo, oggi, ce ne sono tante, troppe. E il più delle volte esse non si sono spente da sole.
A un educatore - a un genitore, innanzitutto - spetta il compito di mantenere accesa ogni stella che gli viene affidata. E se per caso questa dovesse spegnersi inaspettatamente, non ne cerchi subito la causa nella scarsa qualità della stella o nella società, nel mondo, nella crisi morale e via dicendo. Potrebbe essere troppo comodo per nascondere un’altra verità.
Che si ricordi di quello che succede agli alberi delle isole Salomone...


Articolo pubblicato sul numero di Giugno 2011 di Fogli

venerdì 27 maggio 2011

Cogitoetvolo intervista Beppe Severgnini a Palermo

Sono le 15,30 di martedì 24 maggio. Si parla di giornalismo. O meglio, di giornalisti alle prese con l’informazione nell’era del web. Il titolo del convegno dice tutto: I (già) vecchi media. Carta stampata, TV, web. Siamo a Palermo, presso l’Albergo delle Povere, a pochi passi dalla centralissima piazza Indipendenza.

Tra gli invitati ci sono diversi volti noti del giornalismo: Giuseppe Di Piazza, direttore di Sette; Corradino Mineo, direttore di Rai News 24; Marco Bardazzi, caporedattore centrale de La Stampa. Nomi prestigiosi, ma la mia attesa era soprattutto per lui, Beppe Severgnini, scrittore e giornalista del Corriere della Sera.

Il convegno è lungo, dura quasi quattro ore ininterrotte. All’inizio viene proiettato un filmato che mostra come la classe dei giornalisti abbia una pessima reputazione agli occhi degli italiani: mediocri, superficiali, asserviti al potere… L’audio del filmato è pessimo e, per fortuna, dura poco. Al termine della proiezione iniziano a parlare i giornalisti invitati. Quando prende la parola Severgnini, la prima cosa che fa è chiederci se in sala riusciamo a sentire. Dettaglio di classe…

Il convegno procede, senza pause ma in maniera gradevole; si segue con piacere, soprattutto quando a parlare è il giornalista del Corriere, ironico, colto e chiaro, come sempre.
Si parla di tante cose: del fatto che in Italia si legge poco, della crisi della carta stampata - sarà anche colpa del web? - , dell’età media sempre più giurassica dei giornalisti italiani e della assenza di nuove leve, anche perché le assunzioni nel settore sono bloccate da anni…
Torna a parlare Severgnini, che loda la bravura dei giovani giornalisti; è un peccato che i giornali non riescano ad offrire loro neanche uno stage.

La tavola rotonda si avvia alla conclusione, affidata, come era prevedibile proprio a Severgnini.
La missione del giornalista ? Unire i puntini: la gente - dice - non ha tempo per cercare le informazioni da sola, non riesce a districarsi tra le mille notizie della rete: qui entra il giornalista, che deve unire i puntini, appunto, come si fa con i giochi delle riviste enigmistiche per fare comparire una figura ben precisa. In questo modo il giornalista fa un vero servizio alla società.

Poi parla del mirmicoleone, facendoci ridere, forse per ingannare la stanchezza e la fame, data l'ora.
Il mirmicoleone – dice – è una figura leggendaria, per metà leone e per metà formica; esso nasce da un padre leone e una madre formica, ma non potendosi nutrire né come il padre, carnivoro, né come la madre, erbivora, rimane indeciso e muore pochi giorni dopo la nascita. Nel mondo del giornale ci sono tanti mirmicoleoni, giornalisti indecisi che non sanno cosa fare. E invece l'importante é fare le cose bene, non come il mirmicoleone che non sa che cosa fare e muore.
Applauso e conclusione della conferenza.

E qui arriva il bello. Incoraggiato dalla presenza, accanto a me, di Guido Vassallo, decido di andare subito all’arrembaggio e di intervistarlo. Ci avviciniamo assieme.

Salve, dott. Severgnini, complimenti per le belle cose che ha detto. Ci saluta sorridente. Incalziamo: siamo di Cogitoetvolo, vorremmo lasciarle alcuni segnalibri per suo figlio e vorremmo farle alcune domande. Ci dedica qualche minuto?
Severgnini accetta i segnalibri e, spiazzato dalla nostra intraprendenza, ci dice di sì, un po’ a denti stretti – è molto stanco e, come è logico, tutte le attenzioni sono per lui – ma a patto che le domande siano solo due.
Lo ringraziamo e gli ricordiamo che lui, tre anni fa, citò Cogitoetvolo sul suo blog Italians, dicendo, con riferimento ai giovani di Cogitoetvolo, che "gli piacevano gli studenti svegli (quelli colti dicono proattivi)".

Iniziamo a intervistarlo. Guido pone le domande, io registro.

Spesso si ha l’impressione che nel giornalismo faccia notizia la cattiva notizia, oppure il fatto di cronaca un po’ morboso e si punta molto su queste cose. E’ un ripiego perché non c’è altro da dire oppure è questa la prima finalità del giornalismo?
Allora, mettiamola così. Se in un condominio ci sono venti famiglie e in diciannove va tutto bene, i genitori lavorano, i figli studiano, vanno in vacanza d’estate, ecc. Nella ventesima famiglia hanno l’abitudine, quando litigano, di buttare la lavatrice dal balcone e ogni tanto si picchiano sulle scale. Secondo voi nel condominio di chi si parla?
Traduzione: c’è una sorta di inevitabilità che è l’eccezione e spesso è un’eccezione negativa e attira l’attenzione. Questo è fisiologico; quello che è patologico è costruire su questo una sorta di ossessione sociale e quindi trasformare un delitto in un serial televisivo, con i plastici nei talk-show; questo è secondo me sbagliato. Ma che un caso particolare, anche di cronaca nera attiri l’attenzione della gente è normale.
Se uno guarda l’Iliade, c’è di mezzo un rapimento, che è un fatto di cronaca nera! Quindi non bisogna neanche esagerare, anche se è vero però che oggi stiamo eccedendo e che per molti media tutto diventa morboso. Il crimine come eccesso ed esempio della debolezza della natura umana va bene, come nelle tragedie greche: Sofocle o Euripide di che cosa parlano? Ma il crimine come ossessione morbosa è un’altra cosa.

C’è la consapevolezza nel giornalista che quello che lui scrive, sia la notizia che la sua opinione, ha un’influenza nel sentire comune. L’impressione è che a volte nel giornalismo c’è un po’ di pessimismo, si instilla un po’ di pessimismo nella società piuttosto che spingere all’ottimismo.
La tua è un’opinione più che una domanda. Io sono abbastanza d’accordo. E’ vero che alcuni giornalisti hanno questa capacità di condizionare l’opinione pubblica, però non sono moltissimi. Semmai questo avviene nella scelta delle notizie, questo sì.

Questo genera molto pessimismo nei giovani. La cosa che cerchiamo di fare con Cogitoetvolo, che ci siamo posti come obiettivo, è quella di presentare notizie positive, che fanno meno rumore, probabilmente, rispetto a quelle di cronaca nera. Però a volte abbiamo l’impressione che questo non basti, perchè i ragazzi spesso sono disillusi. Guardi il telegiornale e solo dopo un quarto d’ora, forse, se va bene, c’è una notizia positiva. Vedi, l’idea che le notizie positive siano di per sé interessanti è un po’ ingenua. La notizia positiva richiede un’abilità tecnica di esposizione, di confezionamento, di seduzione, superiore. La notizia cattiva aiuta il giornalista pigro, perché di per sé attira. La buona notizia richiede un lavoro maggiore da parte dei giornalisti, una bravura maggiore. Occorre commuovere, appassionare, ispirare, divertire, non è facile! Qualcuno pensa che in qualche modo il buon cuore sia di per sé il passaporto per l’attenzione altrui; non è vero, è quasi l’opposto, il buon cuore è spesso un ostacolo, deve essere filtrato attraverso il mestiere, l’esperienza, l’intelligenza, l’ironia, altrimenti è un guaio. Il romanziere pessimo per definizione è la brava persona che ha il cuore pieno di buoni sentimenti: quasi sempre scrive un romanzo pessimo. Il filtraggio tra i sentimenti che riempiono il cuore e la pagina scritta è quella che si chiama capacità di scrivere. Lo scrittore si vede lì. Quindi io invito a respingere l’idea che poiché sono buono in qualche modo mi merito l’attenzione. Se fosse così il mondo sarebbe migliore, probabilmente; però non funziona così e uno deve accettarlo.

Grazie. Un pronostico per domenica sera? Chi vince la finale di Coppa Italia? Sa, siamo a Palermo…
Vince l’Inter 3 a 1.

Ridiamo.
Guido – interista, ma dal cuore rosanero – forse ride di più. Anch’io rido, ma in cuor mio mi auguro che il pronostico di Severgnini sia l’unica cosa infelice pronunciata in questo bel pomeriggio palermitano.


Articolo pubblicato su www.cogitoetvolo.it


venerdì 20 maggio 2011

Quale sarà il tuo verso?

Lettere ad un teenager/5

“I ragazzi, oggi, non si fanno tante domande sul senso della vita, sulla loro identità, sul loro futuro. Vanno avanti a forza di emozioni.

Quelle domande se le pongono solo se incontrano lungo la loro strada la sofferenza. Allora, forse...”

Così mi diceva un amico con il quale parlavo di come riaccendere il cuore, spesso stanco e svogliato, di tanti ragazzi.

Faccio fatica a credere che un ragazzo, una ragazza, non si facciano mai queste domande a meno che non vadano a sbattere violentemente contro il muro della sofferenza. Non ci credo. Semmai le domande, come la voglia di rendere grande la propria vita, sono come atrofizzate dal vento freddo che viene dal mondo… quasi sempre dal mondo degli adulti.

Come credere in me stesso? Come fare per essere contento di quello che sono e non cercare di apparire per quello che vorrei? Qual è la mia identità? Chi sono? Chi voglio diventare? Per chi vivo?

Sono solo alcune delle domande che, prima o poi, tutti ci facciamo. Che, prima o poi, tu ti fai. Forse sarebbe più comodo ignorarle, sarebbe più comodo far finta di niente. Ma non è nella natura umana, recitava qualche anno fa il protagonista di una famosa serie TV, nel corso della prima puntata.

No, sono domande che non si possono ignorare. Esigono una risposta, dalla quale dipende la tua felicità.

Da dove partire? Riconosco che non è facile; prova a partire dalla conclusione. Dalla certezza – perché è così – che tu sei unico al mondo. Dalla convinzione che, come te, non c’è e non ci sarà mai nessun altro che potrà scrivere la storia che tu solo sei venuto a raccontare. Una storia che, senza di te, lascerà per sempre un vuoto – non importa se piccolo o grande – che non potrà mai essere colmato.

Come te non c’è nessuno mai. Per arrivare a questa conclusione, devi imparare a conoscerti; non basta farlo, devi volerlo fare. Puntare dritto al fondo del tuo cuore, allontanarti dalla superficie, dove è più facile stare; non costa sforzo rimanere in superficie ma così non scoprirai mai chi sei veramente. Dopo aver scoperto chi sei, potrai fare il secondo passo: volerti bene per quello che sei. E allora, solo allora, diventerai capace di volere bene a un’altra persona.

Ma di questo parleremo un’altra volta.

Continua a seguirmi nelle prossime lettere: cercherò di accompagnarti in quella che, usando le parole di un famosissimo film, per te potrebbe essere la scoperta più bella della tua vita: che il potente spettacolo continua e che tu puoi contribuire con un verso.

Quale sarà il tuo verso?


Articolo pubblicato sulla versione online della rivista Familiaria

mercoledì 27 aprile 2011

La famiglia, scuola di amore

Mi puoi descrivere qualcosa di quello che dicono o fanno i tuoi genitori che ti è utile nel rapporto con loro?, chiesi a una liceale tempo fa. Mi aspettavo una risposta prevedibile del tipo mi danno fiducia, oppure mi incoraggiano, o ancora mi danno consigli su come comportarmi.
E invece la sua risposta mi lasciò senza parole: Volersi bene! Due semplici parole che hanno confermato quello che ho sempre pensato e cioè che l’amore lo si impara vedendolo e provandolo sulla propria pelle.
E i primi da cui lo impariamo sono i nostri genitori. Se loro non ce lo mostrano – prima ancora che spiegarcelo – la strada della vita diventa subito in salita e difficilmente potrà cambiare pendenza.

Non è difficile osservare come i ragazzi, oggi, sono sempre più fragili dal punto di vista affettivo: hanno paura di amare e di impegnarsi in relazioni stabili; desiderano l’amicizia autentica ma allo stesso tempo non sono capaci di reggere la delusione di un tradimento; non credono nell’amore per sempre.
A questo si aggiunge la difficoltà a manifestare la propria sessualità in maniera adeguata all’età e soprattutto in modo consono con il proprio sesso biologico: un problema che riguarda soprattutto le ragazze, che negli ultimi anni si sono sempre più mascolinizzate.
Oggi abbonda il sesso, dovunque si parla di sesso. Ma dei sentimenti non si parla. Non si parla del cuore. E chi ne paga le spese sono i ragazzi, disorientati e incapaci di comprendere il legame tra sesso e amore.

Non è facile risalire alle cause, che dipendono dalla società in cui crescono, dai modelli che si offrono loro, dalla sessualizzazione precoce a cui sono sottoposti dai continui stimoli che ricevono sin da quando sono bambini. Almeno non è facile farlo in poche righe.

Su una cosa però vorrei soffermarmi: quanto incidono sulla maturazione affettiva e sessuale di un ragazzo i modelli rappresentati dai genitori? Quanto incide l’assenza o il cattivo esempio di uno dei due genitori? Quanto condiziona soprattutto l’assenza del padre?
Torniamo all’idea iniziale: noi impariamo ad amare se lo vediamo fare ai nostri genitori. A entrambi, papà e mamma; non a uno dei due con un’altra persona che non ci abbia generato. E’ dalla famiglia che ha origine la nostra capacità di voler bene.

E’ in famiglia che impariamo a essere voluti bene.
A casa veniamo amati per quello che siamo, non per quello che abbiamo o per quello che otteniamo. Papà e mamma ci vogliono bene perché è così e basta. Gratuitamente. Papà e mamma ci fanno sentire importanti perché ci amano incondizionatamente.

E’ in famiglia che impariamo a volerci bene.
Perché sin da piccoli siamo incoraggiati da papà e mamma che fanno il tifo per noi, credono in noi, ci fanno sentire sempre adeguati, nonostante i limiti nostri e loro. Perché ci aiutano a conoscerci e ad amarci per quello che siamo.

E’ in famiglia che impariamo a volere bene.
Perché solo se sapremo volerci bene saremo in grado di voler bene a un’altra persona.

Essere amati, amarsi, amare. Tre tappe successive che portano un ragazzo a saper gestire bene una relazione affettiva con un’altra persona. Tre tappe che hanno origine nei genitori.

Come aiutare allora i figli ad imparare ad amare? Volersi bene, ci ricorda la liceale di cui ho parlato all’inizio dell’articolo. Non bastano le intenzioni. E’ necessario che l’amore si veda, che i figli lo vedano vissuto in prima persona da papà e mamma. Che ne vedano i piccoli dettagli, la delicatezza, il pudore, la freschezza nonostante l’età che si fa strada; che capiscano – perché lo vedono in papà e mamma – il senso dell’intimità e del rispetto l’uno per l’altra.
Vogliatevi bene: sarà il regalo migliore che potrete fare ai vostri figli.


Articolo pubblicato sul numero di febbraio-marzo 2011 di Familiaria


giovedì 21 aprile 2011

Chi ha paura di Facebook? (seconda parte)

Continuiamo a parlare dei media digitali, che tanta influenza hanno nella vita dei nostri ragazzi. Il mese scorso si ricordava che per un educatore è molto importante l’atteggiamento da avere nei confronti di questi strumenti: deve avere il desiderio di conoscerli, di comprenderne le dinamiche, se possibile di usarli anche. Qualche mese fa un amico mi diceva: “I miei figli non useranno mai Facebook”. Alla mia domanda se lui lo avesse mai usato, mi rispose di no. Pensai istintivamente all’immagine del bambino che non vuole la minestra pur senza averla mai assaggiata…

Conoscere Facebook & dintorni significa conoscerne luci e ombre, potenzialità e limiti. E aiutare i ragazzi a rendersene conto anche loro.

Prendiamo ad esempio il problema della superficialità. Internet ha accorciato enormemente le distanze spazio-temporali; e questa è una grande conquista. E’ entusiasmante poter chattare con una persona di un altro Paese che si è conosciuta durante una vacanza. Oppure poter vedere attraverso una webcam che cosa succede dall’altra parte del mondo. O ancora, per i ragazzi, informarsi sui compiti per il giorno dopo, poter organizzare una festa o una partita di calcio con pochi click e a costo zero! Il prezzo da pagare è però una comunicazione decisamente più povera. Manca la voce, il suo timbro, la cadenza, i gesti che accompagnano le parole. Non c’è la manifestazione delle emozioni sul volto dell’interlocutore, semplicemente perché questo volto non posso vederlo… Una comunicazione povera che si sviluppa con estrema rapidità. E si sa che ciò che è rapido spesso spinge a rimanere in superficie. La riflessione ha bisogno di tempo, di lentezza. Caratteristica estranea alla logica di internet.

Cambiamo pagina. Tanti genitori infieriscono su Facebook perché non aiuta i figli a comprendere che cosa è la vera amicizia. Mio figlio ha 400 amici su Facebook, ma quanti di questi sono amici veri???
A questi genitori andrebbe chiesto che cosa fanno loro per aiutare i figli ad avere amici veri, reali, in carne ed ossa. Quanto tempo dedicano loro per far toccare con mano la bellezza di relazioni autentiche, profonde, gratuite, belle, vissute personalmente, a tu per tu, in presenza? Rapporti che possono essere iniziati o continuati anche attraverso il web, che diventa così uno strumento per approfondire amicizie vere.

Poi c’è il timore che i ragazzi incappino in contenuti pericolosi: violenza, pornografia, razzismo, droghe e via dicendo. Per evitare ciò sono di grande aiuto i filtri e i cosiddetti programmi di Parental control da installare sui computer; come pure è bene evitare che i figli tengano il computer in camera. Soluzioni utili ma che, di per sé, hanno un’efficacia molto ridotta. Meglio lavorare sulla motivazione, per portare poco alla volta i ragazzi a convincersi liberamente di non accedere a certi contenuti. Come? Rafforzando la comunicazione all’interno della famiglia, favorendo la formazione culturale degli adolescenti attraverso la passione per la lettura – dando essi per primi l’esempio! – , aiutandoli a comprendere l’uso corretto della libertà e la bellezza dell’amore umano. In questo modo i ragazzi stessi arrivano a capire quanto sia riduttivo e umiliante il modo in cui viene rappresentato spesso dai media.

In sostanza, chi educa deve puntare a sviluppare nei ragazzi un sano senso critico. E per farlo deve mettere in gioco tempo, pazienza, sforzo personale. Già, sforzo personale, perché bisogna per primi dare l’esempio ai propri figli. E’ molto più comodo vietare, proibire, comandare. E’ più comodo ma è molto meno efficace.

Continuiamo nell’elenco delle problematiche legate all’uso dei digital media ed arriviamo a quello che forse è uno degli inconvenienti più seri: l’invasività di Facebook. Volete sapere tutto su una persona? Cercatela su Facebook; il più delle volte raggiungerete il vostro obiettivo! Facebook vi permette di sapere come è fatta, qual è la sua età, la sua situazione sentimentale, il suo orientamento politico o religioso, quali sono le persone che frequenta su Facebook ma anche nella vita reale, quello che fa abitualmente (attraverso i suoi stati personali, le foto e i video caricati).

E il più delle volte le persone non si rendono conto che quello che scrivono o pubblicano di sé viene visto da centinaia o addirittura migliaia di persone. Ma c’è di più. Quanti di coloro che mettono le proprie foto su Facebook o che scrivono di essere tristi perché hanno litigato con un amico si esporrebbero allo stesso modo se fossero realmente davanti a tutti gli amici di Facebook contemporaneamente presenti?

A volte mi diverto nel vedere come un liceale che conosco per la prima volta a scuola mi dia del “lei” e pochi giorni dopo, su Facebook, passa senza alcuna remora al “tu”; ma ciò che mi diverte di più è il suo imbarazzo nel tornare al “lei” quando ci rivediamo a scuola. Questo succede perchè il monitor indebolisce e a volte annulla le barriere che proteggono la propria intimità. E Facebook è la massima rappresentazione di tale potere del web. Ma se l’intimità, che è quanto di più prezioso una persona possiede, diventa merce di tutti, che cosa potrà condividere di strettamente personale con coloro che ama di più? Che cosa potrà condividere con gli amici (quelli veri, reali, di carne)? Che cosa potrà donare di sè alla persona che diventerà la sua compagna di vita per sempre? Che cosa proteggerà come valore inestimabile che le permette di possedersi ed, in definitiva, di amarsi?

Ciò che è intimo, quindi, diventa a disposizione di tutti. Ma facendosi pubblico, paradossalmente esso svanisce, si perde e la persona si sente come violentata, anche se sul momento non se ne rende conto.

Perciò la migliore soluzione a questo problema va cercata sin dall’infanzia, aiutando i bambini a salvaguardare la propria intimità e a curare la virtù del pudore. Se un ragazzo arriva alle soglie dell’adolescenza con la piena consapevolezza di possedere dentro di sè un tesoro da proteggere a tutti i costi, gli verrà più facile farlo anche se usa Facebook o altri strumenti che mettono a repentaglio questo tesoro.

Come comportarci quindi per non perdere il contatto con il mondo dei nostri figli? Proviamo a trarre alcune conclusioni.

Innanzitutto ci vuole credibilità. I ragazzi ci guardano. Il problema educativo è degli adulti, ai quali è richiesta innanzitutto coerenza. Oggi mancano veri educatori, per questo si parla di crisi educativa. Gli adulti sono assenti e i ragazzi ne pagano le conseguenze. Dobbiamo lavorare quindi su di noi innanzitutto.

Poi è necessario il dialogo con la cultura post-moderna. Non serve fare crociate, cercare il muro contro muro, che oltre a non portare a nessuna conclusione costruttiva spesso non fa altro che esasperare le posizioni reciproche.

Infine, bisogna armarsi di molta pazienza. Pazienza per capire il mondo dei giovani; o almeno fare lo sforzo di capirlo. Pazienza per aggiornarsi; oggi educare è diventata una professione a tutti gli effetti; ed ogni professionista che si rispetti non può trascurare il proprio aggiornamento. Bisogna che ci si riappropri degli spazi umani, attraverso la lettura, i rapporti umani profondi, la dedicazione di tempo; perché si possa costituire quel territorio comune tra le diverse generazioni che è necessario per poter trasmettere a ogni persona giovane la convinzione – sono parole di Benedetto XVI - della “bontà della sua stessa vita e dei rapporti che la costituiscono, della validità del suo impegno per costruire con gli altri qualcosa in comune”.


Articolo pubblicato sul numero di aprile 2011 di Fogli (edizioni Ares)