venerdì 24 febbraio 2012

L'amicizia. Dove si nasconde questo tesoro?


"Sei su Facebook? Allora ti chiedo l’amicizia stasera, appena mi connetto!".
Chi di noi non ha mai pronunciato o ascoltato queste parole almeno una volta da quando utilizza Facebook?
“Ti ho chiesto l’amicizia… Mi hai accettato l’amicizia… Abbiamo 20 amici in comune…”. Mai come oggi, probabilmente, si è fatto un uso così disinvolto della parola amicizia e mai come oggi sembra che essa abbia perso quell'aura quasi di sacralità che da sempre la caratterizza.
Colpa di Facebook? Probabilmente no, anche se il social network più famoso del pianeta ci ha messo senz'altro del suo. Ma non al punto da far dimenticare ai suoi utilizzatori che l’amicizia, quella vera, è un’altra cosa. “Ho 1.500 amici su Facebook. Ma quanti di essi sono veri amici?”, potrebbe chiedersi a ragione ognuno dei milioni di utenti della community creata da Zuckerberg.
Già, i veri amici. Quelli che sono così "speciali" che si contano sulle dita di una o due mani. Quelli a cui posso dire tutto e da cui posso aspettarmi di tutto. Quelli di cui mi posso fidare ciecamente e a cui concedo l'accesso al tesoro più grande che possiedo, la mia intimità. Quelli che essi stessi sono un grande e inestimabile tesoro.
Eh sì, l’amicizia è una delle esperienze più belle che una persona possa fare. Per capire quanto sia vera questa affermazione, provate a immaginare un mondo senza amici. Se anche riusciste a raffigurarvelo, sareste in grado di vedervi felici in un mondo del genere?
E' molto probabile che la risposta a questa domanda sia un "no" deciso, a riprova che è impossibile vivere senza amici, e questo per un semplice motivo: l’amicizia risponde ad uno dei desideri più profondi del cuore umano, cioè quello di amare e di sentirsi amato.
Sull'amicizia si è scritto tanto nel corso del tempo.
Lewis la considera uno dei quattro amori, assieme all’affetto, all’eros e alla carità. E Goethe paragona gli amici a ciò che riempie il giardino della nostra vita: “Il nostro mondo appare più vuoto se lo immaginiamo solo pieno di montagne, fiumi e città. Però sappiamo che da qualche parte c’è qualcuno che è in sintonia con noi, qualcuno con il quale continuiamo a vivere, sia pure in silenzio. Questo, e solo questo, fa sì che la terra sia un giardino abitabile”.
Sono parole bellissime, che richiamano alla mente quelle di Calvino, il quale nelle Città invisibili paragona la nostra vita all’inferno dei viventi che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme e che molte volte è fonte di sofferenza. “Due modi ci sono per non soffrirne – afferma lo scrittore italiano –. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Come non pensare all’amicizia come una di queste risorse preziose da riconoscere, far durare e a cui dare spazio?

Un percorso a tappe
Avere amici non è facile e ancora più difficile è esserlo; lo sappiamo per esperienza. Tempo fa una ragazza mi scriveva: “come è difficile farsi amare, soprattutto da un amico. Farsi voler bene senza se e senza ma, non avendo paura di andare in profondità. Perché ci sono aspetti del nostro essere che noi stessi odiamo e mai e poi mai vorremmo che saltassero fuori soprattutto davanti a una persona che stiamo facendo nostra amica.”
Mi sembra che queste parole mettano bene in luce il primo vero obiettivo da raggiungere per divenire capaci di amicizia vera: essere amici di noi stessi.
Quante amicizie finiscono perché ad un certo punto l’altro non soddisfa più i nostri desideri? Ma, c’è da chiedersi, che amicizia è quella che ci tiene uniti ad un’altra persona solo perché questa ci fa stare bene? In un rapporto del genere quanto c’è di amicizia vera e quanto invece di bisogno di colmare i nostri vuoti affettivi? Perché se non ci amiamo e non ci accettiamo con tutti i nostri limiti e lati oscuri, difficilmente riusciremo a vivere amicizie autentiche e soprattutto libere.
Il momento più nobile e autentico di un'amicizia si raggiunge infatti quando davanti all'amico posso mostrare le mie ferite e i miei limiti senza timore di essere giudicato. Fino ad allora non c'è vera amicizia, ma solo il bisogno di riconoscimento, cioè di qualcuno che mi dica "tu sei bravo". E un’amicizia così è destinata, prima o poi, a naufragare.
Il primo passo è quindi quello di imparare ad essere amici di se stessi.
Ma non basta. Bisogna andare oltre e comprendere il senso di un'amicizia intesa come dono di sè, perchè solo così essa potrà durare a lungo, anche per sempre.
Probabilmente starete pensando che l'amicizia di chi si dona completamente, di chi non cerca il proprio tornaconto ed è capace di dire all'amico "sono contento che tu esista così come sei", sia difficile da ottenere, se non addirittura impossibile da trovare.
In effetti è indubbio che di amici così ce ne sono pochi e quando abbiamo la fortuna di avere un amico autentico si rafforza in noi la convinzione di avere trovato un vero e proprio tesoro. Ma è anche vero che non è poi così difficile diventare noi stessi tesoro per gli altri.
Come fare allora a trasformare le nostre amicizie in relazioni solide e profonde, belle e indistruttibili?

L'amicizia non cresce da sola
Il segreto sta nell'impegno a farla crescere andando oltre la semplice spontaneità: l'amicizia come dono richiede un costante esercizio di generosità, lealtà, stima, comprensione, prudenza, fortezza, umiltà, fiducia. In altri termini richiede che crescano in noi quelle che Aristotele chiama virtù umane.
D'altra parte, se ci pensiamo bene, è anche logico che sia così. Abbiamo detto che l'amicizia autentica, come ogni forma di amore, esige il dono di sè all'altro. Ma come possiamo pensare di donare noi stessi senza fare i conti con la nostra tendenza innata a voler ricevere le attenzioni degli altri piuttosto che essere noi a darne? Sarebbe un'impresa difficilissima. Per questo ci vengono in aiuto le virtù, come gli esercizi atletici senza i quali nessuno sportivo sarebbe capace di migliorarsi costantemente. Basti pensare che questo dono si esprime, per esempio:

  • nell’offerta della propria interiorità, sapendo dare qualcosa di sé all’amico; e questo richiede umiltà, senza la quale diventa molto difficile permettere ad un'altra persona di entrare nella nostra intimità;
  • nell’accoglienza dell’altro così come egli è, il che presuppone una notevole capacità di comprensione;
  • nella benevolenza rivolta a cercare innanzitutto il bene dell’amico; e sappiamo per esperienza quanto sia difficile pensare al bene altrui prima di ogni tornaconto personale. Una volta mi diceva una persona che l'amore vero non esiste, perchè in ogni relazione che intessiamo con gli altri c'è sempre la ricerca di una forma di soddisfazione egoistica che vogliamo prima di ogni altra cosa. Non è forse questa una visione troppo cinica che dimentica quanto il cuore umano sia capace di dilatarsi, se opportunamente allenato dall'esercizio delle virtù?
  • nel non voltare le spalle all'amico quando scopro i suoi limiti, i suoi difetti, quando mi accorgo che nella nostra amicizia è comparso un ostacolo che prima non c'era. E questo richiede la fedeltà che mantiene l’amicizia nel tempo; e richiede anche la fortezza che mi fa dire di no alla tentazione, oggi così diffusa, di mandare tutto all'aria quando non sento più nulla per l'altro;
  • nella solidarietà quando l’amico si trova in difficoltà. Si dice sempre che i veri amici si vedono al momento del bisogno. E' vero, ma non è altrettanto vero che un amico viene fuori al momento della tempesta solo se ha vissuto bene la sua amicizia anche in tempi di bonaccia? Impresa ardua da ottenere senza una buona dose di generosità.


Fidarsi è bene, e tra amici è ancora meglio!
Abbiamo visto alcuni dei diversi modi in cui si puó manifestare il dono dell'amicizia. Ma ce n'è ancora uno che, probabilmente, è quello che più di ogni altro caratterizza un autentico rapporto di amicizia: la fiducia.
Qualche tempo fa ho raccolto alcune definizioni dell'amicizia durante un incontro fatto con un gruppo di ragazzi proprio su questo tema.
Amicizia è condividere sogni, futuro, passioni, lotte, confidenze. Accettarsi reciprocamente e migliorarsi a vicenda.
E ancora: L'amicizia è un rapporto sincero e fedele tra due persone. Due persone che si vogliono bene e sono pronte ad aiutarsi sempre. L'amicizia rende felici.
Potrei continuare con altre definizioni simili, ma le esigenze di spazio me lo impediscono. Eppure se lo facessi, vi accorgereste che sempre, nelle definizioni che i ragazzi hanno dato, compare la fiducia. Un elemento fondamentale, imprescindibile, senza il quale non può esserci amicizia. Di un amico mi devo fidare. Sempre. Se non mi fido fino in fondo allora non siamo veri amici.
Certo, c'è sempre il rischio che l'amico tradisca questa fiducia. Ma non posso rimanere immobile per questo motivo, così come sarebbe assurdo smettere di respirare per paura dell'aria inquinata.
E poi il cuore umano è fatto per amare, e se non ama qualcuno finisce per rinchiudersi in se stesso.
Insomma, l'amicizia è una esperienza vitale per la nostra felicità. Certo, non è facile difenderla e mantenerla intatta nel corso degli anni. E' un tesoro e, come tutti i tesori, va custodito dagli attacchi dei ladri che vogliono rubarlo. Può darsi che sia un tesoro difficile da individuare e proteggere, perchè l'amicizia non è visibile come può esserlo uno scrigno che contiene diamanti: è un tesoro che, come ha scritto uno dei partecipanti all'incontro di cui vi parlavo prima, si trova nell'invisibile legame che congiunge le anime degli amici.
O, se vogliamo utilizzare le parole di uno dei libri più belli che la storia ci ha lasciato, l'essenziale è invisibile agli occhi; e l'amicizia fa parte di ciò che nella vita di una persona è essenziale.
Per questo è impossibile farne a meno. Peggio: sarebbe inumano.

Articolo pubblicato sul numero di febbraio 2012 di Dimensioni Nuove



lunedì 13 febbraio 2012

Un senso


“Volevo dirle che mi ha fatto molto riflettere sulle diverse tematiche in questione e soprattutto su quella relativa alla comunicazione genitori-figli. Secondo lei come si ci può comportare con un genitore la cui visione della vita è pessimistica e di conseguenza influenza i propri figli?”
Sono appena rientrato a casa e, scaricando la posta elettronica, leggo queste parole di una ragazza che ha partecipato ad un incontro tenuto nella sua scuola il giorno prima. Un incontro in cui ho parlato di sogni e speranze, di ottimismo e fiducia nel futuro.

Fa sempre piacere vedere che le tue parole sono state utili a qualcuno. Fa ancora più piacere se si tratta di persone giovani. Noi educatori abbiamo bisogno anche di queste piccole gratificazioni, perché, per quanto ripetiamo a noi stessi che quello che conta è la gratuità con cui ci dedichiamo ai ragazzi, a volte i nostri limiti ci fanno toccare con mano la difficoltà a mantenere quell’ottimismo che ci sforziamo di trasmettere con le parole.
Una volta un amico al quale manifestavo la sensazione di aver parlato invano ad un gruppo di studenti particolarmente “vivaci”, mi rispose: “Lasciamo sempre qualcosa anche ai più distratti e stanchi tra i ragazzi che ci ascoltano. Comunque, fosse anche per uno solo, ne vale sempre la pena.”

Ma torniamo alle parole della ragazza con cui ho aperto questo articolo. Già, è facile parlare di ottimismo, sembrava dire, ma come fai quando esso manca proprio a casa tua, tra le mura domestiche, tra i tuoi cari, tra coloro che dovrebbero mostrarti la speranza nel futuro?
“Cerca di avere accanto persone ottimiste”, è stata la prima cosa che mi sono sentito di consigliarle. Per rispondere così ho dovuto far tesoro della mia esperienza personale, perché la vita ha messo al mio fianco persone che mi hanno insegnato a gioire del dono che ogni giorno mi viene fatto. Mia madre, innanzitutto; poi tanti amici, alcuni in particolare. Forse anche a me è mancato l’apporto di mio padre, che mi ha trasmesso altre qualità ma non l’ottimismo… e questo mi ha fatto sentire particolarmente vicino alla ragazza che mi ha fatto quella domanda.
Essere ottimisti oggi non è facile. Non è facile trovare ottimisti attorno a noi; anzi, spesso siamo attorniati da messaggi e modelli che vanno nella direzione opposta e che alimentano in noi la paura e la disillusione nei confronti del futuro.
Una paura che ha il potere di spegnere i sogni, come il vento freddo che soffia d’inverno e che ci spinge a rimanere chiusi in casa.
Ma dalla casa bisogna uscire, non siamo fatti per vivere tra le pareti di un appartamento. E non siamo fatti neanche per piangerci addosso. Quando lo facciamo ci stiamo male.

L’uomo contemporaneo è malato di pessimismo, di paura, di tristezza perché ha perso la speranza in qualcosa o in qualcuno che dia un senso ultimo alla sua esistenza. L’uomo contemporaneo è malato di solitudine perché non sa più dare una risposta piena alla domanda che, prima o poi, bussa alla sua porta: Io per chi vivo?
L’ottimismo è il risultato di una pienezza di senso: qualsiasi cosa succeda per me ha un senso, per questo la vita non mi fa paura.
Ripartiamo dal dare un senso alla nostra vita. E per farlo, facciamo leva sul naturale desiderio di condividerla con altri, che a loro volta si appoggeranno su di noi, alimentando una reciproca rigenerazione di speranza. La felicità è reale solo se condivisa, ci ricordava un bellissimo film di qualche anno fa.
Forse un rimedio per interrompere il circolo vizioso della tristezza e del buio nel quale tanti sono caduti è provare a fare girare il vortice al contrario e trasformarlo in un circolo virtuoso di speranza e di luce. Come?
Magari partendo dalla constatazione che "c’è del buono in questo mondo", per usare le parole che, nel Signore degli Anelli, Tolkien mette in bocca a Sam in un momento di sconforto del suo migliore amico, Frodo.
Proprio partendo dal "buono" che troviamo attorno a noi, nelle persone che amiamo, nei nostri amici e conoscenti, nei nostri colleghi, in noi stessi, troveremo la forza per trasformare lo spazio e il tempo della nostra esistenza in risorse preziose per noi e per chi ci sta accanto.
E i pessimisti che ci circondano? Forse smetteranno di essere tali proprio grazie a noi. Anche se si trattasse di chi, come i genitori, dovrebbe illuminare il nostro cammino verso il futuro.

Articolo pubblicato sul blog della rivista Familiaria

martedì 7 febbraio 2012

Libero di scrivere le mie "storie"?


“Voglio sentirmi libero da questa onda, libero dalla convinzione che la terra è tonda, libero libero davvero non per fare il duro, libero libero dalla paura del futuro, libero perché ognuno è libero di andare, libero da una storia che è finita male, e da uomo libero ricominciare, perché la libertà è sacra come il pane, è sacra come il pane”.
Così cantava tre anni fa Fabrizio Moro, in una canzone che, oltre ad essere considerata un inno alla libertà da molti ragazzi, è stata anche usata come colonna sonora di una delle serie per adolescenti di maggiore successo degli ultimi anni, I liceali.

E’ facile parlare di libertà, la canzone di Fabrizio Moro non è l’unica a farlo; lo è di meno, però, dire che cosa sia effettivamente la libertà.
Scriveva Hegel: “Di nessuna idea si sa così universalmente, che è indeterminata, polisensa, adatta e perciò realmente soggetta ai maggiori equivoci, come dell’idea della libertà; e nessuna corre per le bocche con così scarsa coscienza”.
Già, non è facile definire la libertà in un mondo che ha fatto dell’abbattimento di limiti e barriere una conquista che non sempre però ci lascia convinti. “Voglio sentirmi libero da questa onda”, canta Fabrizio Moro. Molti vedono la libertà come la possibilità di sganciarsi da ogni tipo di vincolo. Liberi da qualcosa o qualcuno: solo così si realizzerebbe pienamente la nostra libertà. Eppure ci rimane il dubbio che qualcosa, in questa definizione, non funzioni. Fino a che punto possiamo parlare, infatti, di libertà di aborto o di divorzio, di libertà di ricerca scientifica in campi delicatissimi come l’embrione e le cellule staminali, di libertà di legittimare nuove forme di famiglia o di esercitare preferenze sessuali diverse e senza regole? Fino a che punto è lecito parlare di libertà di eutanasia o, come fanno alcuni in Olanda, di libertà di pedofilia?
In un mondo che vuole annullare ogni limite che impedisca il nostro agire libero, ci chiediamo allora: deve esistere un limite anche per la libertà? E ancora, a che cosa serve la libertà? E’ un fine oppure un mezzo, uno strumento?

Leggete un po’ queste parole trovate tempo fa sul web: “Essere liberi, vuol dire avere la consapevolezza di se stessi per poter sfidare il mondo, senza paura delle conseguenze e del finale che comporteranno le tue azioni....perché se sei libero, lo sei dal tempo, dal passato, dal presente ma soprattutto dagli altri....” Parole affascinanti, forse; ma ci fanno rimanere col dubbio che qualcosa non quadri: è mai possibile che il dono più bello che abbiamo ci serva proprio per non aver alcun vincolo con niente e con nessuno? E’ possibile che la nostra libertà sia assoluta, che si realizzi nello sganciarsi “da” qualsiasi legame, e che non sia invece “per” qualcosa di grande?
Di libertà ha parlato nel 2007 il bellissimo film Into the wild, che racconta l’impresa di un ragazzo che fugge dal suo mondo, da solo, per raggiungere la libertà assoluta in Alaska. Senza dire come va a finire – anche se molti di voi lo avranno visto - , come non ricordare le parole con cui Chris, il protagonista, compie la più grande scoperta del suo lungo viaggio alla ricerca della felicità, e cioè che questa “è reale solo se è condivisa”?
Libertà da o libertà per qualcosa? E’ questa la domanda su cui l’uomo si interroga da sempre. Molti filosofi antichi hanno sostenuto che la libertà vada usata per fare il bene: “non è vivere che è importante ma vivere nel giusto”, scriveva Socrate. Ed Epitteto aggiungeva: “libero non è chi comanda, ma chi obbedisce alle leggi”.
Addirittura le leggi ci permetterebbero allora di esprimere al meglio la nostra libertà? Quanto risulta difficile comprendere questa posizione, abituati come siamo a vivere in un mondo che fa della libertà assoluta la sua legge di vita.

Forse un esempio ci può aiutare a capire meglio. Immaginiamoci seduti davanti alla tastiera di un pianoforte: siamo più liberi se pigiamo i tasti a caso o se suoniamo l’Aria sulla quarta corda di Bach? In quale dei due casi sappiamo utilizzare al meglio il pianoforte traendone qualcosa di veramente bello? Certo, imparare a suonare il pianoforte costa; ci sono ore ed ore di lezione, scale dopo scale, solfeggi, esercizi: bisogna seguire una regola! Non mi fraintendete: è evidente che schiacciare a caso i tasti di un pianoforte non mi rende meno libero; però è vero che si tratta di una libertà rudimentale, grezza, limitata.
Seguire le regole, allora, non sembra limitare la mia libertà. Anzi, come sostiene Epitteto, la realizzerebbe pienamente.
Non è facile, però; è molto più comodo lasciarsi andare. E spesso la conquista della libertà autentica è ostacolata da fattori esterni ed interni a noi: la moda, la pubblicità, la manipolazione dell’informazione ad opera dei media, per esempio. Ma ci sono anche alcuni ostacoli dentro di noi che mi piace riassumere in tre espressioni: “non so fare” (non so studiare, non so giudicare, non mi so esprimere, non so prendere decisioni, non so ascoltare), “non ho” (non ho iniziativa, non ho buon gusto, non ho amici), “non sono” (non sono ordinato, non sono costante, non sono comprensivo, non sono esigente…). Quanti di noi nascondono la propria comodità dietro queste affermazioni che, in definitiva, mostrano tutta la nostra incapacità a impegnarci per essere padroni di noi stessi?
Non è facile, scrivevo. Eppure è molto bello e la prova è data da quanto siamo felici quando riusciamo a superare le nostre limitazioni, attraverso un percorso che si snoda in tre tappe successive: conoscere i propri limiti, accettarli e con essi accettare se stessi, e infine sforzarsi per superarli.
Ricordate le parole del prof. Keating, ne L’attimo fuggente?
“Dovete combattere per trovare la vostra voce. Più tardi cominciate a farlo, più grosso è il rischio di non trovarla affatto!”

Giunti a questo punto è arrivato il momento di farci una domanda che, ne sono sicuro, almeno una volta nella vita ci è passata per la mente: libertà e amore possono andare d’accordo? In altre parole, è possibile amare una persona e rimanere liberi davvero?
Da quello che abbiamo scritto prima sembrerebbe proprio di sì. Ma cerchiamo di capirlo meglio.
E per farlo, partiamo da alcune parole scritte da una ragazza su un forum: “A volte per amore si fanno rinunce per rendere felice l' altro, a volte possono essere di un certo peso a volte possono essere banali, ma sempre privazioni del nostro essere. Quindi mi chiedo: il prezzo da pagare per amare è rinunciare alla nostra libertà di esistere e vivere?”
Ecco, probabilmente la chiave per capire il nesso tra amore e libertà sta in una parola che è il nucleo centrale dell’amore, cioè il sacrificio.
Ci sono tre modi di stare con una persona e questo vale sia per l’amicizia, sia per l’amore tra uomo e donna. Il primo è basato sull’utile, sul bisogno: “sto con te per ottenere qualcosa” (sono tuo amico finché mi passi i compiti, finché mi inviti a casa tua con la piscina, finché mi dai un passaggio con la moto). Ci vuole poco a rendersi conto che in questo caso non possiamo parlare di amore e che tale rapporto è destinato a finire presto.
Il secondo modo di stare con una persona è basato sul piacere, nel senso più ampio del termine: “sto con te perché mi fai essere felice”. Anche in questo caso, si tratta di un rapporto destinato a estinguersi quando l’altro non mi fa più stare bene. Quante volte sentiamo dire: “non stiamo più assieme perché il rapporto con lui non mi dava più niente”?
Non sono forse questi due modi di stare con una persona che nascondono, in fin dei conti, un desiderio egoistico di gratificazione personale? L’altro non è visto come un fine ma diventa un mezzo: un mezzo per farmi stare bene.
Un rapporto di amore, per essere autentico, dovrebbe invece maturare e superare il desiderio innato – e lecito! - in ciascuno di noi di sentirsi amati, voluti bene, stimati; ma l’amore non è solo questo, non può essere solo questo; è molto di più, è darsi, gratuitamente, senza pretendere nulla in cambio.
Per questo il vero modo di stare con una persona è quello che si basa sul considerarla “un altro me” e che mi spinge a dire “sto con te perché voglio farti felice, perché voglio il tuo bene, anche se dovesse costarmi rinuncia e sacrificio”.
Il linguaggio dell’amore è quello del dono e un dono non si richiede mai indietro.
Non facciamo un regalo perché così l’altro un giorno ne farà uno a me. Lo facciamo e basta.
E allora, un dono fatto in questo modo non è forse la prova più grande della nostra libertà?

Articolo pubblicato sul numero di gennaio 2012 di Dimensioni Nuove