venerdì 29 giugno 2012

Se dici basta sei perduto


Qualche tempo fa una collega mi ha detto che non era sicura se quella mattina sarebbe andata a svolgere il suo consueto incarico settimanale nella scuola in cui fa colloqui di orientamento agli studenti dell’ultimo anno. “Non so se andrò – mi diceva – perché ieri si è suicidato un ragazzo e non so se oggi ci saranno i funerali”.
Le sue parole mi hanno colpito particolarmente. Non so spiegare il perché, dato che non era la prima volta che sentivo di un ragazzo che si toglieva la vita. Tra l’altro neanche lo conoscevo. Ho pensato subito alla grande fragilità emotiva di cui soffrono oggi molti adolescenti. Una malattia presente, purtroppo, anche in diversi adulti che non aiutano certo chi guarda loro con la speranza di poter costruire un futuro migliore. Sono molti i giovani e gli adulti che a un certo punto della loro vita dicono basta e che a volte lo fanno in maniera così devastante.

Mi sono tornate alla memoria, quasi spontaneamente, quelle parole di S. Agostino di Ippona: se dici basta sei perduto. Parole forti, decise, che non ammettono mezze misure, e che sembrano scritte per molti uomini di oggi, così propensi a tirare i remi in barca tutte le volte che la vita si fa dura. E invece sono state scritte ben diciassette secoli fa dall’illustre filosofo nonché santo, vescovo e dottore della Chiesa cattolica.
Se dici basta sei perduto. Dovrebbe essere il motto di ogni educatore, di ogni persona chiamata per vocazione a dare speranza. Chiamata a mostrare con la vita che vale la pena spendere la propria esistenza con il desiderio di lasciare a chi ci seguirà un mondo migliore di come lo abbiamo trovato noi.

Se mi chiedessero quale dovrebbe essere la prima qualità che un educatore oggi debba possedere non esiterei neanche un istante a indicare la speranza. Sì, perchè se gli manca la pazienza potrà sempre supplire con altre qualità. Se gli manca la capacitá di comunicare riuscirà comunque a trasmettere le proprie idee, anche se probabilmente con più fatica.
Se non possiede la capacità di comprensione – l'empatia – gli sarà più difficile capire chi si trova davanti ma alla fine il messaggio passerà egualmente.
Ma se a un educatore manca la speranza non ci sarà nessun’altra qualità che potrà sostituire questo grave vuoto. Sarebbe come guidare al buio e senza bussola. Con l'aggravante che un educatore non guida mai da solo ma porta con sé altre persone. Muovendosi al buio e senza nessun mezzo per orientarsi finirebbe per schiantarsi: e se anche riuscisse ad evitarlo, presto o tardi, la mancanza di speranza di arrivare alla meta spegnerebbe ogni speranza. Mi si perdoni il gioco di parole.
La speranza di giungere a destinazione è il motore che ci spinge ad andare avanti. Lo diceva già Seneca nel primo secolo: non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare.
E' impossibile mantenere costante il desiderio di andare avanti se non sappiamo qual è la nostra meta o se la consideriamo irraggiungibile. Prima o poi si getta la spugna.

Bisogna innanzitutto avere chiara la destinazione del nostro cammino, quindi. Camminare per camminare, prima o poi stanca. Anche se oggi tutto sembra dirci il contrario: un famoso film italiano di qualche anno fa faceva dire ad uno dei protagonisti: “l’importante non è quello che trovi alla fine di una corsa; l’importante è quello che provi mentre corri”. Già, peccato però che non si corre all’infinito e che prima o poi ci si ferma a chiedersi verso quale meta è indirizzata la nostra vita. E che cosa succede se ci si accorge che non c’è nessun obiettivo per cui valga la pena continuare a vivere? E soprattutto che cosa succede quando lo si scopre nel momento in cui recuperare gli anni perduti diventa difficile se non impossibile?
Ma non è sufficiente avere una meta per alimentare la speranza di continuare a correre verso di essa. Abbiamo anche bisogno di considerare che l'obiettivo sia effettivamente raggiungibile. Come posso sperare, per esempio, di laurearmi a Oxford se non conosco l'inglese? Dovrei prima imparare la lingua.

Mi rendo conto che sperare che le cose possano cambiare in meglio in un mondo caratterizzato da incertezze e dubbi, da paure e preoccupazioni, non è facile neanche per il più ottimista degli educatori. Ma la speranza non è necessariamente ottimismo. Non è la convinzione che qualcosa andrà bene ma la certezza che una cosa ha senso in ogni caso, leggevo tempo fa sul blog di uno scrittore italiano.
Per questo un educatore può e deve fondare la sua opera d’arte – e ogni uomo che diventa più uomo è un’opera d’arte – sulla speranza che ciò che fa ha un senso, perché si inserisce in un disegno che molto spesso è più grande di lui e di cui lui non è altro che un ingranaggio, piccolo ma essenziale.
Non solo ha il dovere di pensare che il mondo può essere migliore, ma anche che con qualsiasi persona gli venga affidata si possa fare qualcosa di grande, anche se i suoi sforzi si concludessero in un apparente fallimento. Il prof. Hundert, uno dei protagonisti de Il club degli imperatori, dice alla fine del film che “il valore di una vita non è determinato da un singolo fallimento, né da un solitario successo. Per quanto possa inciampare un insegnante è votato a sperare sempre che con lo studio si possa modificare il carattere di un ragazzo e, di conseguenza, il destino di un uomo”.


L’alternativa è la mancanza di credibilità. I ragazzi si accorgono subito se gli adulti sono i primi a non credere realmente a quello che professano; se loro per primi vivono quello che insegnano.
E se trovano attorno a sé adulti incapaci di accendersi per qualcosa di grande, rimangono irrimediabilmente spenti anch'essi. Quanti studenti si lamentano della demotivazione dei propri insegnanti?
Se il mondo oggi è in crisi di speranza forse è perché lo sono molti adulti. Hanno abdicato al loro ruolo di adulti, cioè di persone mature, cresciute. Adulto deriva dal latino adultum che è il passato di adolesco, che significa crescere; per questo un adulto ha il compito di mostrare a chi ancora è adolescente, cioè sta crescendo, la strada maestra verso la felicità, strada che è strettamente connessa alla ricerca del bene personale e del bene comune.
Invece di insistere che non c'è lavoro diamoci da fare per cambiare quello che sta nelle nostre possibilità. Invece di dire che la famiglia non funziona più e dura poco, che non esiste l'amore per sempre, che non ha senso sposarsi, mostriamo con la nostra vita che cosa significa amare chi ci sta accanto. Invece di screditare l’amicizia agli occhi dei ragazzi, perché l'amico prima o poi ti rifila sempre una fregatura, circondiamoci di amici a cui noi per primi diamo il meglio di noi stessi, con la convinzione che la vita ci restituirà molto di più.

Non ci nascondiamo dietro a un dito. Che lo si creda o no, noi siamo i modelli che i ragazzi guardano. Se loro sono spenti è perché vedono che noi siamo spenti. È come se con la loro vita ci dicessero: Se tu sei così, a che serve crescere? Che senso ha diventare come te? Perché impegnarsi per un futuro migliore, se i risultati sono questi?
Le cause dell'emergenza educativa non sono da addebitare ai giovani. Il problema è nostro, siamo noi adulti che dobbiamo cambiare. Mettiamocelo bene in testa.
E allora ripartiamo da noi. Ripartiamo dal presentare ai ragazzi modelli credibili, veri, autentici. Modelli attraenti. Modelli che diano loro la speranza che un mondo migliore è possibile.
È dall'amore alla vita che nasce l'amore alla vita, ha scritto una scrittrice italiana recentemente scomparsa.
Iniziamo noi ad amare la vita. Mostriamo con tutto il nostro essere che la vita è bella.
Ci meraviglieremo dei risultati sui nostri ragazzi.

Articolo pubblicato su Fogli di maggio 2012

2 commenti:

  1. Bellissimo quello che dici! Da insegnante sono d'accordo con le parole del prof. Hundert, è fondamentale credere negli alunni e guidarli a credere in loro stessi, presentando gli insuccessi come possibili ma non insormontabili.
    Ed è vero che se gli adolescenti di oggi non sono più motivati a tentare è perchè gli adulti hanno mollato la presa. Quanta tristezza quando vedo adulti che vagano senza meta, corrono senza sapere cosa cercano e non riescono ad uscire da loro stessi per andare incontro all'altro e offrirsi, eventualmente, come modello quando l'altro che li guarda è un ragazzino. E infatti sembra che oggi nessuno abbia più il coraggio di rischiare una scelta definitiva, di giocarsi in un progetto e così è come correre sul posto: non si avanza di un millimetro!
    Piacere di averti letto, è interessante questo blog.

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  2. Grazie Monica, mi fa piacere che il blog ti piaccia.  Spero di continuarti a vedere su queste pagine allora :-)
    È triste vedere adulti che non fanno gli adulti ma è bello vedere quanti, in silenzio, continuano a farlo. Tu sei una di questi e sicuramente conoscerai altri colleghi - forse pochi - che credono nel lavoro educativo e nella forza dell'esempio. E non è poco.
    Ripartiamo da qui. 

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