martedì 12 giugno 2012

Pedagogia del dolore


È un pomeriggio primaverile e sto parlando a un folto gruppo di genitori, nella scuola di un paese siciliano. L’argomento è l’adolescenza, un tema sentito da tanti papà e soprattutto da tante mamme, quando toccano con mano la difficoltà di gestire un figlio adolescente.
A un certo punto il discorso cade sull’autonomia dei loro figli, sull’importanza di farli diventare capaci di prendere e portare avanti da soli le decisioni che riguardano la loro vita. Una meta difficilissima, in una società come la nostra, dove solo da pochi anni è stato coniato un termine – bamboccione – che la dice lunga sulla capacità dei figli di tagliare i ponti con le rispettive famiglie.
Una meta che sembra sempre più lontana dalla mente di molti genitori, preoccupati più di non far mancare niente ai propri figli che di aiutarli a saper vivere da soli.
Stiamo parlando di questo obiettivo, con i genitori presenti in sala, quando una mamma interviene e mi dice: «E adesso che mia figlia sta per terminare il liceo, lei si rende conto che dovrò starle dietro perché non dimentichi di fare l’iscrizione all’università? So già che dovrò essere io a prepararle i documenti e a informarmi su tutto quello che serve. Insomma, alla fine dovrò fare tutto io, perché la conosco bene e finirebbe per non riuscire a iscriversi in tempo».

Rimango pensieroso mentre la signora continua a parlare. Alla fine provo a dire la mia opinione, spalleggiato da alcuni genitori presenti, perplessi come me, ma non c’è verso di farle cambiare idea.
Continuo a chiederle: perché non rischiare di farle fare uno sbaglio che potrebbe aiutarla a diventare finalmente «grande»?

E’ una domanda che continuo a farmi tutte le volte che tocco con mano la fragilità degli adolescenti. E’ un tema di cui si parla sempre più spesso, quando emerge la difficoltà di tanti ragazzi a reggere il peso di una delusione amorosa o di un insuccesso professionale, per esempio; quando emerge in qualche modo la difficoltà a gestire la complessità della vita. Qualche tempo fa, a Napoli una ragazza si è suicidata dopo aver mentito ai genitori facendo credere loro di essersi laureata, perché non ha avuto il coraggio di dire che non riusciva a laurearsi. E ancora, lo scorso anno a Palermo un giovane dottorando si è lanciato dal settimo piano dell’edificio universitario dove lavorava, perché angosciato dalla mancanza di prospettive professionali.

Ora, è indubbio che si tratta di drammi che richiedono rispetto nei confronti delle vittime e del loro dolore. Ma saremmo incoscienti se non riflettessimo a fondo sui motivi che portano un giovane a fare scelte così drastiche e che denotano l’enorme difficoltà a reggere il peso della sofferenza.
Oggi molti giovani sono incapaci di soffrire. E non di rado la colpa è dei loro genitori, che fanno di tutto per risparmiare ai figli, sin da piccoli, ogni difficoltà e ogni forma seppur lieve di sofferenza; a volte la ritengono un’esperienza addirittura traumatica. Ma per quanto essi si sforzino, non potranno mai impedire completamente che i figli sperimentino la realtà del dolore e della sofferenza.
La sofferenza fa parte della vita come l’errore fa parte dell’apprendimento. Non esiste apprendimento che non faccia esperienza degli errori; anzi, proprio questi spesso aiutano a imparare meglio. Allo stesso modo, non esiste vita nella quale non si faccia esperienza del dolore. Un’esperienza salutare, perché il dolore spesso insegna ad apprezzare le cose che contano nella vita.
Per questo è preoccupante che molti genitori vogliano eliminarlo dalla vita dei loro figli. È preoccupante perché così facendo li priveranno del mezzo più importante che i figli hanno per apprezzare e amare la vita.
Che cos’è il dolore, infatti, se non la reazione a un male fisico o morale? Esso non ci rimanda, per contrasto, all’idea del bene? Così come le ombre in un quadro fanno risaltare le luci, così come l’amaro ci fa gustare meglio il dolce, il dolore e la sofferenza ci permettono di apprezzare le cose belle della vita; sembra scontato eppure non lo è.

Eppure oggi tanta gente giovane è letteralmente terrorizzata dall’idea di soffrire. Molte nuove mamme hanno orrore del parto naturale, per esempio. I ragazzi sono spaventati dalla solitudine, cercano continuamente la compagnia del gruppo, di qualcosa o di qualcuno che non li faccia mai sentire soli. Ma la solitudine è necessaria per ascoltarsi, conoscersi, amarsi; tre tappe senza le quali non è possibile amare un’altra persona.
Ancora, molti ragazzi sono terrorizzati dalla noia, che è diventata il nemico principale da combattere. Nella loro vita non ci può essere spazio per la noia: ogni desiderio dev’essere immediatamente soddisfatto. E, in un circolo vizioso che si autoalimenta, il piacere continuamente soddisfatto finisce per atrofizzare proprio la capacità stessa di desiderare.

Il dolore ci aiuta a comprendere il valore delle cose. La fatica che accompagna una conquista dà infatti un grande valore all’obiettivo raggiunto; ma se le cose si ottengono senza soffrire, senza sforzo, che valore avranno?
Il dolore ci aiuta a capire che nella vita non tutto ci è dovuto; e ci predispone più facilmente a ringraziare per quello che ci viene donato dalla vita stessa, ogni giorno. Eppure in tanti oggi cercano di fuggire il dolore. Sarà anche per questo che molte persone non capiscono il senso del ringraziare?
Il dolore è la pietra di paragone dell’amore, diceva qualcuno. Sarà per questo che oggi molti non sono più capaci di amare?

Certo, è brutto veder soffrire una persona cara, ancora di più se si tratta dei nostri figli. Ma a volte, permettere loro questa esperienza è molto salutare; addirittura può diventare necessario, in alcuni casi. Non abbiamo alternativa, se vogliamo renderli felici.
Non impediamo che sbaglino. Non impediamo che soffrano.
Non sia mai che, per non averla mai provata, un giorno vengano a chiederci il conto perché li abbiamo protetti costantemente dalla sofferenza. Sarebbe il danno più grande che potremmo aver arrecato loro. Anche se lo avessimo fatto a fin di bene.

Articolo pubblicato sul numero di Aprile 2012 di Fogli

3 commenti:

  1. Condivido pienamente Dottor Sgroi.
    Ciò che Lei dice si collega con qualcosa che sostengo da sempre e che mi sta molto a cuore:
    il valore educativo del "NO".

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  2. Già, credo che sia una delle principali mete da raggiungere con i genitori innanzitutto. Sai quanti sono quelli che per la paura di perdere l'amicizia dei figli o per "non farli soffrire" o peggio perchè è la strada più facile hanno abolito il "no" dalla loro azione educativa?

    PS: non ho dimenticato che dobbiamo incontrarci ma per il momento sono ancora molto impegnato con alcuni progetti di lavoro...

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    Risposte
    1. Era proprio quello a cui mi riferivo io.
      Spesso osservo l'instaurarsi di legami intergenerazionali "perversi" all'interno dei quali il genitore pensa qualcosa del tipo: "Da piccolo non mi hanno fatto mai mancare niente quindi per quale motivo devo negare qualcosa a mio figlio?". Oppure: "Da piccolo non avevo niente, ora a mio figlio devo dare tutto".
      In entrambi i casi la sofferenza,il "no" e, talvolta, persino il rimprovero non sono concepiti.

      PS: nessun problema, immagino abbia decine di impegni! Appena Le sarà possibile per me sarà un piacere!

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