venerdì 15 giugno 2012

Un territorio comune


“Come è andata oggi a scuola?” Chi di noi non si è mai sentito fare questa domanda, tanto temuta quanto odiata, da parte dei propri genitori? Temuta, perché vorremmo fare tutto all’infuori che dover raccontare con parole sempre nuove quello che facciamo in maniera per noi ripetitiva e abituale ogni giorno a scuola. Odiata, perché è sempre la stessa domanda! E non è strano allora che si dia sempre la stessa risposta: Bene!
Il rapporto tra genitori e figli è una delle cose più difficili da gestire durante gli anni in cui si smette di essere bambini e ci si avvia verso l’età adulta. “L’adolescenza è quel periodo della vita in cui i genitori diventano insopportabili”, ho letto tempo fa in un libro sull’adolescenza. Sono le parole con cui un liceale risponde al suo prof che gli chiede di definire, a parole sue, questo periodo della vita.
Una definizione senz’altro poco scientifica, ma sicuramente divertente ed efficace. Una definizione che ben si collega alle parole con le quali ho iniziato questo articolo. Perché sentirsi porre sempre le stesse domande, in un periodo della vita in cui il rapporto con i genitori viene completamente ridisegnato, a volte è proprio insopportabile. Così come è difficile mettersi d’accordo sull’orario del rientro serale o sugli amici che “è bene o non è bene frequentare”, o sul modo di andare vestiti e via dicendo. Situazioni che spesso si concludono con porte sbattute, urla reciproche, musi lunghi e guerre fredde che durano per giorni e giorni.

Eppure, a sentire le due campane – da un lato i genitori, dall’altro i figli – verrebbe di dare ragione a entrambe. Ecco come un papà alle prese con un rapporto problematico con i suoi figli, commentava l’articolo in cui un docente faceva un elenco di comportamenti che ogni buon genitore dovrebbe avere: “Caro prof, ti posso garantire che essere genitori è difficilissimo, anche se tu fai tutto quello che annoti nel tuo post, spesso ti ritrovi contro i tuoi figli, capita di sentirti definire nei modi più sconfortanti... Sapessi quante volte ho pianto per il silenzio dei miei figli. Ho pianto per le loro risposte alle mie richieste. Sono stato quasi sempre molto disponibile, ho dedicato loro il mio tempo fuori dal lavoro, li ho sorretti, spalleggiati e coccolati, li ho amati, li coccolo e li amo ancora di più ora, sono la vita mia e di mia moglie, ma credimi essere genitori è la missione più difficile…”
E concludeva, rassegnato: “Prof, ti prego di' ai nostri figli quanto li amiamo e quanto cerchiamo molte volte in loro uno sguardo che ci indichi il momento di parlare e di esserci.”
Uno sfogo comprensibile, verrebbe da dire. Come non dare torto a questo papà che sembrerebbe mettercela tutta per continuare a comunicare con ragazzi che, dal canto loro, sembrano rispondere ignorando la sua sofferenza? E come non mettersi dalla parte di tanti papà e mamme che si trovano nella stessa situazione?
Già, ma come la mettiamo con gli altrettanto comprensibili e leciti desideri di tanti adolescenti che vogliono essere trattati da grandi, avere la giusta autonomia, pretendere il rispetto della propria riservatezza, essere tenuti maggiormente in considerazione?
Verrebbe di dare ragione a entrambi, scrivevo più sopra. Ma non sempre è possibile, anzi spesso è proprio dura riuscire a trovare una soluzione che accontenti entrambi, che tenga conto delle richieste degli uni e degli altri.
E allora che fare? Come costruire un ponte tra due mondi che sembrano, anzi, sono così diversi?

Un territorio comune
Proviamo ad individuare alcune possibili strategie per gettare un ponte da una riva all’altra. A cominciare, per esempio, dal trovare assieme un territorio comune su cui confrontarsi. I genitori non vogliono forse la felicità dei loro figli? Certamente sì, a loro modo però! E i figli, non vogliono per sè stessi la stessa cosa, cioè essere felici? In questo caso, però le prospettive sono assolutamente diverse da quelle dei genitori.
Si tratta allora di trovare dei punti in comune, per esempio provando a mettersi gli uni nei panni degli altri. E’ quello che gli esperti chiamano empatia, una parola che significa “provare la stessa passione, gli stessi sentimenti” e che a me piace tradurre in “guardare il mondo con gli occhi dell’altro”. Basterebbe questo per ridurre drasticamente molte delle incomprensioni che nascono tra genitori e figli, ma anche tra fratelli e sorelle, tra fidanzati, tra amici.
La comunicazione tra genitori e figli funziona infatti come qualsiasi altra forma di comunicazione. E quando c’è qualcosa che non va è perché in uno dei due – o in tutti e due – c’è qualche problema di fondo, oppure perché ci sono degli ostacoli tra le due persone che comunicano, oppure perché i due utilizzano linguaggi diversi. Quest’ultimo caso riguarda molto da vicino proprio la comunicazione tra genitori e figli che, per ovvi motivi, parlano e parleranno sempre due linguaggi completamente diversi. Se così non fosse, vorrebbe dire che i genitori hanno smesso di fare i genitori per indossare i panni degli amici – sarebbe meglio dire degli “amiconi” – dei figli. E questo comporterebbe altri problemi, ben più seri…
Ma torniamo all’empatia, a questa capacità di mettersi nei panni dell’altro per comprendere le ragioni del suo agire.
Pensiamo, per esempio, alla mamma che risponde alla figlia che vuole rientrare più tardi dell’orario previsto: “Un giorno capirai, quando sarai mamma e avrai i figli che vorranno rientrare alle due di notte!”. E perché non provare a capirlo adesso, invece? Perché aspettare anni per comprendere il motivo per cui i miei genitori sono così insopportabili su questo punto?
Qualche tempo fa, parlando con una ragazza del rapporto con i suoi genitori, questa mi diceva: “L’unica cosa di cui mi lamento è che mi chiedono ogni giorno ‘come è andata a scuola?’ perché credo che se mi assillano così è peggio e inutile: glielo dico comunque senza bisogno che me lo chiedono”.
Devo confessare che il dubbio che poi glielo dicesse comunque mi è rimasto… Eppure non è forse questo un esempio di come, mettendosi nei panni dei genitori e facendo il primo passo, si potrebbero evitare tante guerre familiari? Basterebbe, appunto, “dirglielo comunque senza bisogno che me lo chiedono”.
Certo, anche i genitori dovrebbero fare la stessa cosa ma molte volte, in un confronto difficile con un’altra persona, basta che uno dei due faccia il primo passo perché anche l’altro ammorbidisca la propria posizione.

Lasciamo che anche il tempo faccia la sua parte
Nel discorso tenuto agli universitari di Stanford nel 2005, Steve Jobs, ha parlato di come spesso, per trovare un senso pieno a quello che ci succede, dobbiamo attendere che passi molto tempo: “non potete sperare di unire i puntini guardando avanti, potete farlo solo guardandovi alle spalle: dovete quindi avere fiducia che, nel futuro, i puntini che ora vi paiono senza senso possano in qualche modo unirsi nel futuro”.
Jobs si riferiva allo studio, all’università, alla carriera professionale. Ma le sue parole possono certamente applicarsi anche alle incomprensioni che ci sono tra genitori e figli. Insomma, è lo stesso concetto dell’odioso “un giorno capirai”, solo che detto da Jobs suona un tantino più simpatico.
Già, perché poi c’è anche il problema di come si dicono le cose. Perché tra mille modi di dire le cose si deve per forza scegliere il peggiore? Basterebbe un po’ più di attenzione, di delicatezza, di empatia, per usare parole che sono più efficaci proprio perché evitano di ferire l’altra persona.
“Non trovi mai niente nella tua stanza! Questa casa non è un albergo! Non studi mai!”, gridano i genitori. Ma anche i figli non scherzano: “I genitori di Tizio sono migliori di voi! Siete vecchi! Non capite niente di noi!”
Il risultato è che ognuno rimane sulla propria posizione, anzi direi che questo genere di accuse finisce per alzare barriere sempre più invalicabili.
A volte – e anche questo vale per ogni forma di relazione tra due persone – è meglio lasciar raffreddare gli animi, attendere un po’ di tempo prima di affrontare il problema, pensare se le parole che sto per dire “a me darebbero un fastidio tremendo”; se è così, perché usarle verso l’altro?
Sono considerazioni forse ovvie, eppure nel nostro rapporto con gli altri commettiamo spesso l’errore di dimenticarle.
Basterebbe davvero un po’ più di attenzione per comunicare meglio. Tutto sommato è semplice, no?

Articolo pubblicato su Dimensioni Nuove di aprile 2012

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