giovedì 12 luglio 2012

Il flop del preservativo


Una notizia che è passata in sordina: non ne ha parlato nessuno, tranne il quotidiano Avvenire che ha riportato direttamente i dati del ministero della Sanità inglese, anticipati a sua volta dal Daily Telegraph.
Li riportiamo anche noi, arrotondati per difetto. In Inghilterra nel 2010 hanno abortito 38.000 adolescenti e di queste ben 5.000 lo hanno fatto per la seconda volta e quasi 500 per la terza volta.
A onor del vero va detto che un leggero calo rispetto al 2009 c’è stato: quasi 2.000 aborti in meno. Ma è aumentato il numero degli aborti multipli.
Insomma, c’è poco da stare allegri. Da un lato c’è una vera e propria strage di innocenti, i bambini mai nati e uccisi alla media di poco più di 100 al giorno. Dall’altro c’è il dramma di ragazze segnate per tutta la vita da una scelta così devastante.

Ci dicono che in Italia si faccia poca educazione sessuale e che si parli poco di prevenzione. Ci dicono che si dovrebbe parlare maggiormente di preservativi & pillole ma che purtroppo viviamo in una società bigotta, con troppi tabù da sfatare. Ostacoli senza i quali diminuirebbero anche gli aborti tra le ragazze. Questo ci dicono.
Sarà che noi italiani siamo diversi dagli abitanti della Gran Bretagna, ma mi risulta davvero difficile credere che, se facessimo come loro, qui le cose funzionerebbero meglio. La società inglese è più libera e aperta della nostra, è meno “bigotta”, da 5 anni si promuove in lungo e in largo la contraccezione tra i teenagers. Perché allora più di 100 ragazze ogni giorno decidono di spegnere una nuova vita che è nata in loro? Evidentemente ci deve essere qualcosa che non funziona.

Che cosa?
Potrebbe essere la qualità dei contraccettivi. Scadenti, di pessima fattura, inefficaci. Ma è un’ipotesi che ci fa ridere. Quindi la scartiamo.
Potrebbe essere allora che nonostante la pubblicità martellante, i giovani teenagers inglesi non vogliano usare né pillole, né preservativi di sorta. Anche questa ipotesi sembra inverosimile, in un Paese dove la morale sessuale è molto più sbiadita e molle di quanto non sia in Italia e dove sembra che il governo inglese abbia addirittura recapitato gratuitamente a casa di migliaia di teenagers, durante le ultime vacanze natalizie, la pillola del giorno dopo.


E allora?
L’articolo di Avvenire riportava le parole di Rebecca Mallinson, della Prolife Alliance: “Queste ragazze hanno bisogno di valori, non di consigli pratici su come abortire. E’ facile dire a una minorenne che c’è una soluzione pratica e sbrigativa ai suoi problemi, ma una soluzione di questo tipo spesso è quella peggiore per il futuro”.
Qualche tempo fa un’amica ginecologa mi raccontava la sua esperienza di medico di guardia, soprattutto il sabato sera. Mi diceva delle ragazze che si presentavano da lei assieme al partner, terrorizzati entrambi, chiedendo la pillola perché si era rotto il preservativo. Mi raccontava di vedere in questi ragazzi sguardi attoniti, preoccupati, sorpresi, come a testimoniare un improvviso risveglio da un bel gioco. Un gioco che, nella realtà, proprio gioco non era, visto che tra le possibilità contemplava niente meno che quella di diventare padre e madre di una nuova creatura…
Ci chiedevamo, allora, che cosa non funzioni in Inghilterra, tra le teenagers super informate e super protette da una società che non mette loro alcun ostacolo al sesso-libero-ma-protetto. Una società che però non riesce ad impedire che, ogni giorno, più di 100 di esse uccidano il proprio figlio e si rovinino l’esistenza per sempre.

Può darsi allora che la partita vada giocata su un altro livello? Non è che forse bisognerebbe spiegare ai ragazzi che il sesso è più che un gioco? Può essere che prima ancora del come fare l’amore a loro interessi il perché ed il che cosa significhi?
Sono risposte difficili da dare e che avrebbero bisogno almeno che si provi quest’altra alternativa. Magari i risultati sarebbero gli stessi, ma non ci è dato saperlo in anticipo. L’unica certezza sembra essere che la prima strada non funziona, e quella l’abbiamo provata già; anzi c’è già chi l’ha provata per noi.
Perché allora insistere scioccamente?

Articolo pubblicato su Familiariamagazine.it

martedì 3 luglio 2012

Un'Italia di vecchi, un'Italia vecchia


“Siamo un paese vecchio, abbiamo idee e modalità vecchie. Dovremmo avere il coraggio di cambiare. Noi siamo venuti agli Europei con questo coraggio”.
Queste dichiarazioni di Cesare Prandelli, al termine degli Europei 2012 hanno fatto il giro dell’Italia. E forse del mondo.
E ci hanno ricordato una realtà che ci fa male, perché ci toglie la speranza nel futuro: viviamo in un Paese vecchio.
Cesare Prandelli ha fatto breccia, è entrato nei nostri cuori perché lui è simpatico ed ha anche una mentalità giovane, nonostante i suoi 55 anni. E’ uno che pensa da giovane perché ci ha fatto credere in un progetto. Perché sa sorridere, anche al termine di una finale persa per quattro a zero. Perché ci ha fatto vedere probabilmente il più bel calcio giocato dalla nazionale negli ultimi 10 anni. Un calcio giovane, che stride con un'Italia vecchia.

L'Italia è vecchia e non solo nel calcio. Ci voleva Prandelli per ricordarcelo?
Sono vecchi i politici. Compreso il settantatreenne ministro per lo sport, intervistato a fine partita a bordo campo. Con tutto il rispetto per l’onorevole Gnudi, ma almeno il ministro per lo sport, che per definizione è giovane, almeno lui, non potrebbe avere qualche anno in meno?
Sono vecchie le case. Per questo crollano quando la terra decide di muoversi.
Sono vecchi molti quadri dirigenti delle aziende. Che non crescono.
Sono vecchi i partiti, che non attraggono più.
Sono vecchi troppi docenti, perchè hanno perso la passione che dovrebbe accendere i cuori dei loro studenti.

Dovremmo avere il coraggio di cambiare, ci ha ricordato Prandelli. Lo ha ricordato agli italiani, a molti italiani vecchi, che avranno storto il naso alle sue parole, gridando o solo pensando “frasi da vecchi”: non é possibile, è difficile, non si cambierà mai, non vale la pena, quando ero giovane io...
Le frasi da vecchi spengono la speranza, e la speranza è la linfa della giovinezza.
Forse basterebbe che ciascuno di noi torni un po' più bambino e la smetta di fare troppi calcoli, di pronunciare "frasi da vecchi". Perché i bambini, grazie a Dio, ancora sanno sognare.
Non ci sono altre strade: o torniamo a sognare e a far sognare nella speranza di lasciare a chi ci seguirà un mondo più giusto, più bello, più vero, oppure rimarremo vecchi.
E un mondo di vecchi è destinato ad autoestinguersi.
E a non vincere neanche i prossimi mondiali...

Articolo pubblicato su Familiariamagazine.it


venerdì 29 giugno 2012

Se dici basta sei perduto


Qualche tempo fa una collega mi ha detto che non era sicura se quella mattina sarebbe andata a svolgere il suo consueto incarico settimanale nella scuola in cui fa colloqui di orientamento agli studenti dell’ultimo anno. “Non so se andrò – mi diceva – perché ieri si è suicidato un ragazzo e non so se oggi ci saranno i funerali”.
Le sue parole mi hanno colpito particolarmente. Non so spiegare il perché, dato che non era la prima volta che sentivo di un ragazzo che si toglieva la vita. Tra l’altro neanche lo conoscevo. Ho pensato subito alla grande fragilità emotiva di cui soffrono oggi molti adolescenti. Una malattia presente, purtroppo, anche in diversi adulti che non aiutano certo chi guarda loro con la speranza di poter costruire un futuro migliore. Sono molti i giovani e gli adulti che a un certo punto della loro vita dicono basta e che a volte lo fanno in maniera così devastante.

Mi sono tornate alla memoria, quasi spontaneamente, quelle parole di S. Agostino di Ippona: se dici basta sei perduto. Parole forti, decise, che non ammettono mezze misure, e che sembrano scritte per molti uomini di oggi, così propensi a tirare i remi in barca tutte le volte che la vita si fa dura. E invece sono state scritte ben diciassette secoli fa dall’illustre filosofo nonché santo, vescovo e dottore della Chiesa cattolica.
Se dici basta sei perduto. Dovrebbe essere il motto di ogni educatore, di ogni persona chiamata per vocazione a dare speranza. Chiamata a mostrare con la vita che vale la pena spendere la propria esistenza con il desiderio di lasciare a chi ci seguirà un mondo migliore di come lo abbiamo trovato noi.

Se mi chiedessero quale dovrebbe essere la prima qualità che un educatore oggi debba possedere non esiterei neanche un istante a indicare la speranza. Sì, perchè se gli manca la pazienza potrà sempre supplire con altre qualità. Se gli manca la capacitá di comunicare riuscirà comunque a trasmettere le proprie idee, anche se probabilmente con più fatica.
Se non possiede la capacità di comprensione – l'empatia – gli sarà più difficile capire chi si trova davanti ma alla fine il messaggio passerà egualmente.
Ma se a un educatore manca la speranza non ci sarà nessun’altra qualità che potrà sostituire questo grave vuoto. Sarebbe come guidare al buio e senza bussola. Con l'aggravante che un educatore non guida mai da solo ma porta con sé altre persone. Muovendosi al buio e senza nessun mezzo per orientarsi finirebbe per schiantarsi: e se anche riuscisse ad evitarlo, presto o tardi, la mancanza di speranza di arrivare alla meta spegnerebbe ogni speranza. Mi si perdoni il gioco di parole.
La speranza di giungere a destinazione è il motore che ci spinge ad andare avanti. Lo diceva già Seneca nel primo secolo: non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare.
E' impossibile mantenere costante il desiderio di andare avanti se non sappiamo qual è la nostra meta o se la consideriamo irraggiungibile. Prima o poi si getta la spugna.

Bisogna innanzitutto avere chiara la destinazione del nostro cammino, quindi. Camminare per camminare, prima o poi stanca. Anche se oggi tutto sembra dirci il contrario: un famoso film italiano di qualche anno fa faceva dire ad uno dei protagonisti: “l’importante non è quello che trovi alla fine di una corsa; l’importante è quello che provi mentre corri”. Già, peccato però che non si corre all’infinito e che prima o poi ci si ferma a chiedersi verso quale meta è indirizzata la nostra vita. E che cosa succede se ci si accorge che non c’è nessun obiettivo per cui valga la pena continuare a vivere? E soprattutto che cosa succede quando lo si scopre nel momento in cui recuperare gli anni perduti diventa difficile se non impossibile?
Ma non è sufficiente avere una meta per alimentare la speranza di continuare a correre verso di essa. Abbiamo anche bisogno di considerare che l'obiettivo sia effettivamente raggiungibile. Come posso sperare, per esempio, di laurearmi a Oxford se non conosco l'inglese? Dovrei prima imparare la lingua.

Mi rendo conto che sperare che le cose possano cambiare in meglio in un mondo caratterizzato da incertezze e dubbi, da paure e preoccupazioni, non è facile neanche per il più ottimista degli educatori. Ma la speranza non è necessariamente ottimismo. Non è la convinzione che qualcosa andrà bene ma la certezza che una cosa ha senso in ogni caso, leggevo tempo fa sul blog di uno scrittore italiano.
Per questo un educatore può e deve fondare la sua opera d’arte – e ogni uomo che diventa più uomo è un’opera d’arte – sulla speranza che ciò che fa ha un senso, perché si inserisce in un disegno che molto spesso è più grande di lui e di cui lui non è altro che un ingranaggio, piccolo ma essenziale.
Non solo ha il dovere di pensare che il mondo può essere migliore, ma anche che con qualsiasi persona gli venga affidata si possa fare qualcosa di grande, anche se i suoi sforzi si concludessero in un apparente fallimento. Il prof. Hundert, uno dei protagonisti de Il club degli imperatori, dice alla fine del film che “il valore di una vita non è determinato da un singolo fallimento, né da un solitario successo. Per quanto possa inciampare un insegnante è votato a sperare sempre che con lo studio si possa modificare il carattere di un ragazzo e, di conseguenza, il destino di un uomo”.


L’alternativa è la mancanza di credibilità. I ragazzi si accorgono subito se gli adulti sono i primi a non credere realmente a quello che professano; se loro per primi vivono quello che insegnano.
E se trovano attorno a sé adulti incapaci di accendersi per qualcosa di grande, rimangono irrimediabilmente spenti anch'essi. Quanti studenti si lamentano della demotivazione dei propri insegnanti?
Se il mondo oggi è in crisi di speranza forse è perché lo sono molti adulti. Hanno abdicato al loro ruolo di adulti, cioè di persone mature, cresciute. Adulto deriva dal latino adultum che è il passato di adolesco, che significa crescere; per questo un adulto ha il compito di mostrare a chi ancora è adolescente, cioè sta crescendo, la strada maestra verso la felicità, strada che è strettamente connessa alla ricerca del bene personale e del bene comune.
Invece di insistere che non c'è lavoro diamoci da fare per cambiare quello che sta nelle nostre possibilità. Invece di dire che la famiglia non funziona più e dura poco, che non esiste l'amore per sempre, che non ha senso sposarsi, mostriamo con la nostra vita che cosa significa amare chi ci sta accanto. Invece di screditare l’amicizia agli occhi dei ragazzi, perché l'amico prima o poi ti rifila sempre una fregatura, circondiamoci di amici a cui noi per primi diamo il meglio di noi stessi, con la convinzione che la vita ci restituirà molto di più.

Non ci nascondiamo dietro a un dito. Che lo si creda o no, noi siamo i modelli che i ragazzi guardano. Se loro sono spenti è perché vedono che noi siamo spenti. È come se con la loro vita ci dicessero: Se tu sei così, a che serve crescere? Che senso ha diventare come te? Perché impegnarsi per un futuro migliore, se i risultati sono questi?
Le cause dell'emergenza educativa non sono da addebitare ai giovani. Il problema è nostro, siamo noi adulti che dobbiamo cambiare. Mettiamocelo bene in testa.
E allora ripartiamo da noi. Ripartiamo dal presentare ai ragazzi modelli credibili, veri, autentici. Modelli attraenti. Modelli che diano loro la speranza che un mondo migliore è possibile.
È dall'amore alla vita che nasce l'amore alla vita, ha scritto una scrittrice italiana recentemente scomparsa.
Iniziamo noi ad amare la vita. Mostriamo con tutto il nostro essere che la vita è bella.
Ci meraviglieremo dei risultati sui nostri ragazzi.

Articolo pubblicato su Fogli di maggio 2012

venerdì 22 giugno 2012

Ana e Mia: quando l’alimentazione diventa un problema.


La mia vita è controllata da due personalità: Ana e Mia. Ana mi fa stare bene, mi fa sentire bella, mi fa sentire importante, mi fa sentire libera. Mia mi uccide dentro, mi fa sbagliare, mi rende brutta, mi rende cattiva, mi rende un fallimento. Due personalità contrastanti ma così legate l'una all'altra...Si alternano, si intrecciano, mi fanno diventare pazza. Devo uccidere mia prima che lei uccida me e la ucciderò grazie ad ana.
Inizia così il mio viaggio alla scoperta di un mondo a me sconosciuto, fatto di ragazzi ma soprattutto ragazze alle prese con due tra i disordini alimentari più diffusi e devastanti che esistono tra gli adolescenti: l’anoressia e la bulimia.
L’anoressia, che significa letteralmente “senza appetito”, spinge una persona a ridurre fino a quasi interrompere la propria alimentazione per la paura ossessiva di ingrassare. La persona anoressica non prende cibo e fa di tutto per dimagrire: spesso vomita per evitare di metabolizzare il cibo ingerito.
Molto simile all’anoressia è la bulimia, che significa letteralmente “fame da bue”: essa consiste in uno smodato desiderio di mangiare, seguito da forti sensi di colpa che portano la persona bulimica a voler eliminare il cibo ingerito attraverso il vomito autoindotto o l’uso esasperato di lassativi.
Due malattie di cui si parla meno di quanto si dovrebbe e attorno alle quali esiste un mondo nascosto e spesso clandestino costituito da centinaia di siti, blog e forum che coinvolgono migliaia di adolescenti e non solo.

Quello che si legge sul web fa rabbrividire e dà l’idea di quanta sofferenza ci sia dietro queste due malattie:
“Toglietevi dalla testa che vomitando risolvete la schifosissima abbuffata in cui siete cadute! L’abbuffata non è ammissibile! E’ solo in caso di emergenza, deve essere un gesto estremo, all’abbuffata non bisogna mai arrivarci! MAI! ANA è ordinata, pulita, perfetta! Ti mette il potere e il controllo nelle mani…”
E ancora:
“Vomito incessantemente tutto il giorno e più vomito più mi sento in colpa, più mi faccio schifo, più mangio e più vomito”.
Ancora più inquietante è quest’altra testimonianza:
“Ho 16 anni e l’anno scorso ero ana pesavo 34/35 kg x 1,66 di altezza. Poi ho deciso di uscirne e a giugno pesavo 49 kg e non ero né ana né mia. Ora, però purtroppo sono mia e voglio tornare ana!!!ciao un bacio a tutte…”

Si tratta di un mondo che, se da un lato mi è distante – sono un educatore, non uno psicologo o un medico -, dall’altro mi inquieta per le conseguenze devastanti che ha su molti adolescenti.
Si tratta di malattie che richiedono interventi specialistici, di ambito soprattutto psichiatrico oltre che alimentare. Tuttavia da educatore mi interrogo su quali siano le cause che portano molti ragazzi ma soprattutto ragazze ad avere con il proprio corpo un rapporto così conflittuale da rovinare la propria esistenza e, ovviamente, quella di chi sta loro accanto.
Mi rendo conto che probabilmente le cause sono tante e complesse ma non riesco a credere che, di fronte alla non accettazione patologica del proprio corpo, non ci sia anche una carenza educativa da parte di chi quella accettazione dovrebbe favorirla sin dalla nascita, ossia i genitori.
Lungi da me il desiderio di colpevolizzare chi spesso soffre con i figli e più dei figli per una situazione dolorosa e difficile da gestire.

Tuttavia non posso fare a meno di chiedermi: dove sono i genitori quando uno dei loro figli comincia a dimagrire in maniera così vistosa da scomparire quasi dietro ai vestiti? Come fanno a non accorgersene? Che modelli offrono ai loro figli perché questi possano identificarsi con essi? Quanto dialogo cercano di instaurare con loro sin da quando sono bambini?
Forse queste sembreranno domande semplici e scontate. Tuttavia è con azioni semplici e abituali che si formano i figli. L’educazione non è mai frutto di pratiche eccentriche o straordinarie. Straordinari sono quegli interventi che diventano necessari per sistemare qualcosa che a un certo punto ha smesso di funzionare correttamente. Non sarebbe meglio pensarci prima?

Articolo pubblicato sulla versione online di Familiaria